Egregio direttore,
da quando la storia di Indi Gregory, la neonata inglese che purtroppo è morta dopo aver combattuto dalla nascita contro una gravissima malattia, ha iniziato ad avere grande rilevanza mediatica ho notato che ha toccato il cuore di molte persone. Tantissimi giudizi in merito sono circolati e continuano a circolare puntando il dito su diversi aspetti della sua storia. Tuttavia ho notato una disinformazione generale in merito ai fatti. Fatti che sono chiaramente riportati nelle sentenze delle corti inglesi e che, se lette, potrebbero innanzitutto aiutare a comprendere meglio la vicenda e, poi, essere strumento per offrire un giudizio più radicato nella realtà specifica.
Non posso, in merito, tra i vari articoli girati sui media non riferirmi all’intervista al grande filosofo e psichiatra Eugenio Borgna recentemente pubblicata da Repubblica col titolo “È disumano uccidere la speranza di quei genitori” che mi sembra usi la vicenda come spunto per affermare posizioni che, pur giuste in teoria, non solo non riflettono sul caso in questione, ma lo usano come pretesto per offrire al lettore una visione personale del rapporto genitoriale e del concetto di speranza. La risposta di Borgna “bisognava ascoltare i genitori” alla vertiginosa domanda “chi ha il diritto di decretare se una vita è degna di essere vissuta?” interroga personalmente ciascuno che, innanzitutto in quanto al mondo, è figlio e, poi, magari, anche genitore. Però, prima di continuare questa riflessione, mi preme offrire un quadro della vicenda il più possibile oggettivo.
Indi Gregory, una neonata di otto mesi che dalla nascita era ricoverata nel reparto di terapia intensiva the Queen Medical Centre di Nottingham (UK) era affetta da una rara malattia metabolica (D, L 2-hydroxyglutaric aciduria) che ha ripercussioni gravissime sul cervello, una severa ventricolomegalia che comporta la dilatazione dei ventricoli laterali del cervello e la tetralogia di Fallot, una cardiopatia che incide sul normale flusso sanguigno nel cuore ([2023] EWCA Civ 1262)). Secondo i medici che avevano in cura la neonata, le procedure a cui Indi era soggetta le provocavano dolore che veniva manifestato con pianto, movimenti agitati e aumento del battito cardiaco. Da ottobre il suo quadro clinico era ulteriormente deteriorato al punto da richiedere continua sedazione. Alla luce di questo e di pareri di medici di altri specialisti (britannici ed esteri), il team medico di Nottingham aveva indicato ai genitori di Indi che il passaggio da cure invasive a palliative potesse essere l’ipotesi migliore per tutelare il superiore interesse (best interests) della loro figlia. Purtroppo però non è stato possibile raggiungere un accordo tra le parti e, di conseguenza, il caso è stato portato più volte davanti all’Alta Corte di Giustizia e alla Corte d’Appello inglese.
Durante i procedimenti era emerso che l’Ospedale Bambino Gesù di Roma sarebbe stato disponibile non solo ad accogliere Indi, ma anche a farsi carico di tutte le spese relative ai trattamenti medici. Oltretutto il Governo italiano, per facilitare il trasferimento Oltremanica, oltre ad aver conferito a Indi la cittadinanza, si è successivamente appellato alla Convenzione dell’Aia (prima volta nella storia in materia) secondo cui uno Stato membro può richiedere ad un altro firmatario di rilasciare la tutela di un soggetto se si considera meglio atto a tutelarne il suo superiore interesse (art. 9 (2)).
Nonostante questo l’Alta Corte inglese aveva ribadito che il quadro clinico della neonata indicava chiaramente che ulteriori interventi invasivi non solo non avrebbero portano ad alcun tipo di miglioramento, ma sarebbero stati sproporzionati (§45 [2023] EWHC 2753 (Fam)). Inoltre un eventuale trasferimento non sarebbe stato esente da rischi.
Per questi motivi, il giudice aveva sottoscritto il piano medico del Queen Medical Centre che prevedeva in dettaglio il passaggio da trattamenti invasivi a palliativi. In breve, si trattava di estubare Indi e diminuire la sedazione così da poter introdurre l’assistenza ventilatoria non invasiva e cercare di stabilizzarla. Tale procedura doveva essere eseguita in un luogo attrezzato a far fronte a possibili complicazioni, per cui o l’ospedale o un hospice, ma non la casa di Indi che era desiderio primo dei genitori. Alla fine Indi si è spenta in hospice tra le braccia della madre e con la sua famiglia al capezzale.
Ritornando ora alla domanda che poneva Borgna su chi avesse il diritto di decretare che una vita non fosse degna di essere vissuta, alla luce dei fatti sopra esposti, sembra doveroso chiedersi se il caso di Indi abbia mai posto questa domanda ai medici, giudici e genitori e non, piuttosto, se si fosse trattato di stabilire se continuare a somministrare trattamenti invasivi fosse o meno accanimento terapeutico. In questo caso, Nottingham o Roma non avrebbe fatto sicuramente differenza per il giudice. Al contrario la storia di Indi porta a domandarsi se la responsabilità genitoriale sia assoluta in merito ai trattamenti di fine vita nei bambini e come stabilire il superiore interesse del paziente quando si intravede la necessità di limitare terapie invasive e di passare a cure palliative.
Per quanto concerne la responsabilità genitoriale nelle decisioni mediche, nel Regno Unito questa deve essere sempre tutelata al fine di garantire le prerogative parentali secondo il Children Act 1989. Tuttavia laddove non si riuscisse a raggiungere un accordo tra i medici e i genitori, un giudice è chiamato a prendere la decisione finale sulla base delle evidenze ricevute da entrambe le parti. In quanto i medici non possono agire contro loro coscienza (per esempio, somministrare trattamenti perché obbligati dai genitori) e i genitori non possono richiedere che loro figlio sia soggetto a trattamenti medici che non recano alcun beneficio o sono considerati sproporzionati. La rottura del rapporto di fiducia medico-paziente è sempre da considerarsi una sconfitta per entrambe le parti e i vari casi portati sul dominio pubblico dai media, sebbene siano una minima percentuale di quelli che quotidianamente vengono trattati negli ospedali, fanno pensare che ci sia la necessità di implementare misure a sostegno di una collaborazione che veda il rapporto medici-genitori parte integrante della cura del paziente in tutti i suoi aspetti.
Per quanto, invece, concerne l’accanimento terapeutico non bisogna dimenticare quanto il Comitato Nazionale di Bioetica in occasione di un caso inglese simile sottolineava in una sua mozione: “Per quanto riguarda i bambini piccoli va riconosciuto che nella prassi l’accanimento clinico è spesso praticato perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile, senza lasciare nulla di intentato, per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze. […] Il superiore interesse del bambino è il criterio ispiratore nella situazione e deve essere definito a partire dalla condizione clinica contingente, unitamente alla considerazione del dolore e della sofferenza (per quanto sia possibile misurarli), e del rispetto della sua dignità, escludendo ogni valutazione in termini di costi economici” (Comitato Nazionale di Bioetica, Mozione. Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita, 30 gennaio 2020).
Pertanto, tornando a Indi e ai suoi genitori, penso che sperare contro ogni speranza sia nel tessuto umano di ogni genitore, soprattutto per chi che ha una Indi Gregory tra le braccia. I medici, la società e la cultura in cui siamo hanno il dovere di sostenere tale impeto con la consapevolezza che, da un lato, non è affare dell’uomo decidere il giorno e l’ora del suo ultimo respiro, ma, dall’altro, sperare contro ogni speranza non può significare mantenere un regime di trattamenti medici invasivi indipendentemente dal quadro clinico del paziente.
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