Una recente sentenza del tribunale di Madrid (juzgado de lo sociale n. 19, del 22 luglio scorso, pubblicata il 23 luglio) sta riportando all’attenzione dei media internazionali (cfr., ad esempio, questa pagina de El Pais, dal quale è possibile anche consultare la sentenza; ma anche questo articolo de The New York Times) la questione dell’inquadramento dei cosiddetti riders o lavoratori on demand, ossia di quei soggetti che prestino la loro opera, per lo più di trasporto di beni, sulla base di modalità che raccolgono da una piattaforma o applicazione web o comunque secondo istruzioni rese in forma light. Soggetti per i quali, dunque, la figura del datore di lavoro è quasi “impalpabile” e le modalità di esecuzione della prestazione solo con difficoltà possono essere racchiuse entro gli schemi concettuali autonomia/subordinazione cui siamo abituati, visto che il soggetto può sempre liberamente sottrarsi al potere direttivo. Per usare un’espressione della giurisprudenza, in effetti questi lavoratori «non [hanno] l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non [ha] l’obbligo di riceverla».



La vicenda non è ignota ai lettori di questo quotidiano, ed è diventata oggetto di dialogo e riflessione, in particolare dopo la sentenza con cui il tribunale di Torino nel maggio dello scorso anno aveva rigettato un ricorso con il quale si voleva vedere riconosciuta la natura subordinata dei rapporti di lavoro che si atteggiano in tal guisa. Si tratta di questione non esclusivamente nostrana, se è vero che sentenze sulla qualificazione del rapporto di tali lavoratori (con esiti diversi e anzi opposti) sono state emanate dalla Corte di giustizia europea (sul caso Uber), ma anche da tribunali del Regno Unito, della Francia, della Spagna, e, per citare qualche caso extraeuropeo, degli Stati Uniti (California), del Brasile, dell’Australia.



Ma veniamo alla recente sentenza madrilena, la quale sia detto sin d’ora non è definitiva (e anzi la società soccombente ha già annunciato che impugnerà). Già nel giugno di questo anno, in Spagna, il tribunale di Valencia ha riconosciuto la natura subordinata di 97 riders Deliveroo; nei primi mesi dell’anno venturo, si attende la sentenza per un caso analogo sottoposto al tribunale di Barcellona, e che coinvolge addirittura circa 750 lavoratori. Peraltro, la società spagnola è stata scossa, nel maggio di quest’anno, dalla morte di un cittadino nepalese di 22 anni, che lavorava come rider per conto della società Glovo, investito a Barcellona da un camion mentre con la sua bici stava effettuando le consegne per conto della società.



Nel caso giudicato presso la corte di Madrid, l’attore del processo era l’Istituto nazionale per la sicurezza sociale, che – all’esito di un’ispezione avviata nel 2015 per il periodo dall’ottobre 2015 al giugno 2017 – pretendeva il pagamento della contribuzione propria per i lavoratori subordinati per 532 riders della società Roofoods Spain s.l., di proprietà della statunitense Roofoods ltd., titolare del brand Deliveroo. Il valore della contribuzione evasa era di circa 1,2 milioni di euro.

Il giudice spagnolo, dopo aver descritto il servizio offerto dalla società in favore di produttori di alimenti e bevande e clienti, ha speso molte pagine della sentenza a ricostruire le modalità di funzionamento delle applicazioni per cellulare Deliveroo (per i clienti finali) e Rider Deliveroo (per i lavoratori); del software Staffomatic (per l’organizzazione dei turni) e dell’indirizzo di posta elettronica ridersmadrid@deliveroo.es (per le comunicazioni di servizio). Da ultimo, ha indagato con precisione le modalità di concreto svolgimento della prestazione da parte dei collaboratori e di coordinamento con la direzione aziendale.

Ora, l’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente è stata argomentata dal giudice sulla base di «folleto o guia informativa» (opuscolo o guida informativa) fornita ai riders al momento dell’assunzione, unitamente ad altri elementi che hanno evidenziato «la esistenza di istruzioni del datore di lavoro relativamente alle modalità del lavoro». In particolare, il giudice ha ritenuto che l’organizzazione del lavoro è stata tale da potersi considerare applicabile l’art. 1.1 dello Estatuto de los Trabajadores, secondo il quale si considera dipendente quel lavoratore che presta servizio retribuito per conto di altri nell’ambito dell’organizzazione e della direzione di un datore di lavoro.

Ed è giunto a tale conclusione valorizzando gli elementi della volontarietà della prestazione, la personalità di essa, la corrispettività; ha poi riconosciuto l’esistenza della “alterità” di mezzi e rischi, alla luce del fatto che il mezzo di locomozione è ben poca cosa rispetto alla (pur “eterea” ma molto concreta) combinazione dell’applicazione impiegata per lo svolgimento della prestazione e del brand Deliveroo stampato sugli accessori forniti; e che in fondo i lavoratori erano del tutto estranei rispetto ai clienti finali delle loro consegne, il rapporto con i quali è in capo alla società datrice.

Ma soprattutto la sentenza, quanto al requisito della subordinazione, ha evidenziato che questo elemento deve essere letto, alla luce dell’attuale realtà sociale, in termini che si accordino allo sviluppo dei mezzi tecnologici, mezzi che realizzano una dipendenza del lavoratore più sfumata, meno evidente, più flessibile che nel passato, ma comunque effettiva ed efficace. È la stessa organizzazione del servizio, con le dettagliate istruzioni che sono impartite al momento della costituzione del rapporto e la penetrante soggezione che le applicazioni implicano, che – pur escludendo la necessità di continuativi controllo e direzione del datore – realizza in sé un rapporto di lavoro dipendente, per la minuziosa indicazione dei termini di realizzazione dell’incarico affidato.

Una tale sentenza, prima ancora che sollecitare la (ennesima) modifica delle norme di legge in materia, a mio avviso richiede una revisione profonda dei concetti di subordinazione e autonomia e, forse, della stessa nozione di lavoro; e questo perché le categorie concettuali che utilizziamo (e che come abbiamo visto anche i giudici stranieri impiegano) non sono forse più sufficienti a contenere la (variegata) realtà.