“Perché si fanno pochi tamponi? Perché i ricoverati con sintomi e quelli in terapia intensiva non calano? Perché i malati guariscono più lentamente che nelle altre regioni? Perché nel Lazio ci sono queste anomalie?”. A porsi queste domande è Stefano De Lillo, medico di base che per anni si è occupato di politiche sanitarie. “Premesso che la situazione dell’epidemia sta migliorando ovunque e che il virus oggi sembra meno virulento di prima, nel Lazio osservo una situazione comunicativa, epidemiologica e clinica un po’ strana”.



Perché dice questo?

Ora che siamo entrati nella fase 2, è importante verificare l’evoluzione dei 21 parametri stabiliti dal Comitato tecnico scientifico. Tra i più importanti figura il numero di tamponi positivi. Con un’avvertenza: più tamponi si fanno, più contagiati si trovano; meno tamponi si eseguono, meno casi positivi vengono allo scoperto.



Osservazione tautologica…

Vero. Però così c’è il rischio che i virtuosi si ritrovano con dati peggiori rispetto a quelli che eseguono pochi tamponi. Come, appunto, il Lazio.

Prima accennava a una situazione comunicativa, epidemiologica e clinica strana. In che senso?

Nella nostra regione sembrerebbe quasi che i pazienti guariscano più lentamente, rimangono più a lungo in ospedale e le terapie intensive si svuotino molto meno velocemente che altrove.

Zingaretti ha ricordato che il Lazio conta 123 casi ogni 100mila abitanti, uno dei tassi più bassi d’Italia, e un tasso di letalità al 7,8%, quasi la metà dell’indice nazionale. Dove sta il problema?



Un numero, innanzitutto: nel Lazio si contano 64 tamponi ogni 100mila abitanti, siamo al sestultimo posto in Italia. Bisognerebbe fare più tamponi, soprattutto per cercare gli asintomatici.

Cos’altro emerge dalla lettura dei numeri?

Con 1.119 ricoverati con sintomi il Lazio è al terzo posto in Italia, vicino al Piemonte, che però conta ben 29.346 casi positivi, quattro volte tanto i 3.533 del Lazio. Nella fase di picco i ricoverati nella nostra regione erano il 4% del totale nazionale, oggi sono il 12%. In una settimana in Emilia-Romagna i ricoverati sono calati da circa 1.700 a 763, da noi da 1.400 a 1.119. Perché il nostro tasso di dimissioni è molto più lento? Ritengo che siano dati da guardare con molta attenzione.

Com’è la situazione nelle terapie intensive?

Da una settimana i casi sono stabili a 74, ma nelle altre regioni il tasso dei ricoverati in terapia intensiva sta scendendo, se non addirittura crollando. Perché nel Lazio non calano? E che dire dei guariti? Sono 3.100, gli stessi del Friuli Venezia Giulia, che pure ha la metà dei casi totali, 3.209, o della Campania, che conta 4.714 casi totali, cioè 3mila in meno del Lazio. Siccome la situazione è dinamica, vuol dire che ci sono ancora più persone che entrano in ospedale rispetto a quelle che vengono dimesse? Perché nessuno ne parla?

Lei che idea si è fatto?

Non ho risposte, ho solo messo insieme una serie di dati che mi inducono a dire che c’è qualcosa che non funziona. Siamo proprio sicuri che tutto nel Lazio sia sotto controllo? Che ne pensano virologi, epidemiologi ed esperti vari? Visto che ci dicono di guardare con attenzione al numero di ricoverati in terapia intensiva e ai guariti, ci sono forse un cluster o più cluster ancora attivi e che non si spengono? A mio avviso, con questi numeri non si può certo dire che il Lazio sia un modello cui ispirarsi.

Nel Lazio è partita una campagna di screening con test sierologici. Che cosa sta emergendo?

Premesso che questa indagine statistica mira a rintracciare nelle persone le immunoglobuline G, cioè a scoprire coloro che sono entrati in contatto con il virus, ma che hanno già sviluppato gli anticorpi, e dunque sono in via di guarigione, finora sono stati evidenziati 9 tamponi positivi tra i soggetti che hanno sviluppato anticorpi IGG su un totale di 20mila soggetti testati. Questo parametro, moltiplicato per i 6 milioni di cittadini della nostra regione, ci fa pensare che ci possano essere quasi 3mila asintomatici positivi in circolazione, che dobbiamo trovare eseguendo un maggior numero di tamponi.

In Lombardia la città di Milano resta sorvegliata speciale, perché si vuole assolutamente evitare lo scoppio di una “bomba biologica”. E Roma?

Finora alla luce dei tamponi fatti e dei casi riscontrati non è percepito né dichiarato alcun pericolo, però proprio per la densità demografica della città è necessario tenere la guardia sempre molto alta. E in questa fase 2 sarebbe anche il caso che si provvedesse a una razionalizzazione dei reparti Covid, facendo sì che nei piccoli ospedali, dove si contano pochi ricoverati, si possa tornare gradualmente alla normale attività di cura e intervento anche per tutte le altre patologie.

(Marco Biscella)

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