È probabile che pochi ricordino chi è Robert Reich. Segretario (ministro) del Lavoro sotto la presidenza Clinton, economista (Harvard Yale e Berkeley). Lo scorso 3 giugno, sull’edizione americana del Guardian, ha lanciato uno dei suoi vibranti sassi. Il suo noto “L’economia non genera più speranza”, si accompagna al dilemma se il capitalismo possa essere salvato. Quel capitalismo che nello spirito liberista selvaggio dice grazie alla globalizzazione e alla diffusione di un’ignoranza per la mancanza dei sistemi educativi e sociopolitici adeguati al trend tecnologico così come riflesso anche da quei giganti della Silicon Valley, maestri in patria dello sfruttamento del lavoro. E ora sotto i riflettori ovunque si fanno considerazioni su impresa capitalistica, lavoro e reciproci orizzonti.
Il pregio più evidente del sistema capitalistico e del meccanismo del mercato intorno al quale esso ruota è di avere reso possibile l’innalzamento delle condizioni di vita nel corso di un periodo ristretto di tempo. Questo è avvenuto per il fatto che nel fenomeno capitalistico sono presenti due aspetti così dinamici e interagenti da essere sin dal suo lontano passato spesso conflittuali. Il primo è dato dalla necessaria creazione di una “società aperta” richiesta dalla configurazione stessa del mercato. Solo attraverso gli scambi e la continua circolazione e collocazione delle merci, è possibile incrementare la produzione e ottenere che i mezzi investiti, tornino aumentati e vengano distribuiti. Società aperta vuol dire anche concorrenza e mobilità, che favoriscano l’allocazione tendenzialmente razionale delle risorse La razionalità, quale particolare categoria di questo processo, rende potenzialmente uguali gli operatori. O comunque esplicita le condizioni su cui si dovrebbe operare affinché questo avvenga, facilitando l’uguale disponibilità delle informazioni, per poter agire nel sistema.
Ecco pertanto, che il sistema capitalistico nella sua migliore accezione liberista, e si potrebbe altresì dire, per paradosso nella migliore eccezione asiatica, quella del partito Stato o statalista di mercato, favorisce la predisposizione degli elementi di una mobilità sociale ed economica, che richiede la presenza di un sistema politico che garantisca le condizioni essenziali di libertà, senza cui la citata mobilità sarebbe inesistente.
Il secondo aspetto, spesso conflittuale col primo, consiste nel fatto che, pur necessitando di una società aperta, il fenomeno capitalista genera tensioni e in parte condizioni di crisi nei tentativi di mantenere la produzione del reddito e la sua distribuzione il più possibile concentrata. Questo implica un continuo confronto-scontro tra produttori (tra imprese e tra imprese e sindacati, tra privato e pubblico) che sfocia spesso in conflitti economici e sociali, con l’emergere anche di mediazioni istituzionalizzate, attraverso forme di “economia mista”.
Storicamente, il difetto del sistema capitalistico è duplice. Da una parte quello di aver surrettiziamente sfruttato il principio della “società aperta” in contesti diversi da quelli in cui si è sviluppato: per sostenere cioè la penetrazione coloniale, che rendeva di fatto ostative e “residuali” le culture locali. Dall’altra parte è quello di non avere reso possibile la condivisione da parte di tutti delle sue potenzialità positive nel contesto in cui esso si è sviluppato. A mo’ di giustificazione, vale da una parte la complessità degli aspetti storici e sociali, di difficile indirizzo, ma a mo’ di accusa, vale altresì l’incapacità di far evolvere il fenomeno sotto una tensione etica, il cui corretto indirizzo già risiedeva nella centralità dell’uomo e del suo lavoro come patrimonio di ognuno e di tutti, latifondisti e capitalisti compresi
L’homo faber è culturalmente colui che rende possibile l’avvio del processo capitalistico, l’homo oeconomicus è quello che ne garantisce la perpetuazione. Tra i due esiste un fattore unitario e unificante rappresentato dal fatto che solo con il lavoro l’uomo esercita il suo dominio intellettivo e materiale sulla natura, sulla terra, genericamente e particolarmente intesa. Attraverso di esso è riconoscibile il suo contributo alla creazione. Se l’uomo, a immagine e somiglianza di Dio, crea – cioè produce e scambia per far sì che la ruota muova la società umana verso lo sviluppo – (esercitando il suo dominio sulla terra) quest’opera che necessariamente coinvolge i suoi simili, o si realizza dominando anch’essi, o si indirizza sulla via di una collaborazione attraverso un contratto sociale.
Nella complessità degli intrecci che contraddistinguono la storia economica, due fattori pesano in modo preponderante nello sviluppo della concezione sociale capitalistica. Uno è la terra che, fattore primario di produzione, i fisiocratici trasmettono come categoria agli economisti classici con un orpello che peserà in modo non indifferente. Nella trasmissione, terra e proprietà della stessa, e quindi proprietà del mezzo di produzione, poi assunto come fattore simbolico e sintetico dei mezzi di produzione, escluso il lavoro, sono termini omogenei.
Ma proprietà della terra comporta anche la trasmissione di una categoria arcaica che è la ripartizione rigida delle classi sociali, In questo quadro lo sviluppo mercantilistico che con il commercio comincia a definire il meccanismo embrionale del capitale attraverso la commutazione merce-denaro-merce, rappresenta la base dalla quale far emergere lo stesso capitale come condizione e leva atta a facilitare la mobilità dei fattori di produzione. Se la riconoscibilità del capitale si concretizza nello status sociale della proprietà della terra (fatevi un giro nelle migliori proprietà in tutto il mondo per conoscerne i “padroni”… vale anche Instagram che è più economico) a essa è riconosciuta, translata conditio, la possibilità e la capacità di generare credito per le intramprese imprese di produzione e scambio. Se quindi la proprietà della terra è fattore di partenza e arrivo dello status sociale, la capacità mercantile è a essa complementare, anche quando diviene proprietà più ampia della capacità organizzativa dell’industria.
Diverso è allora il quadro della proprietà del lavoro, che resta ignota fino alla cancellazione della servitù sia della gleba, sia di ben altre servitù tuttora esistenti. Solo con l’avvio delle rivoluzioni industriali questa proprietà trova una nuova identità, ma non certo una piena dignità, tuttora scarsa in molti luoghi del pianeta, non ultimo, anche se in limitata ma significativa parte, anche nel nostro quadrante. Essa infatti ha un peso tanto minore, quanto più è forte la tradizione dei rapporti sociali vigenti, che definisce la proprietà nella sua concretezza, resa visibile dall’espressione.
Ed è – la proprietà del lavoro – tanto sottopesata quanto più ampia è la categoria economica della scarsità che in base alla legge della domanda e dell’offerta rende il lavoro sovrabbondante e quindi di minor valore. Solo le trasformazioni dei due secoli precedenti a partire dalla prima rivoluzione industriale, portano il lavoro (nato come espressione di proprietà della condizione umana, narrata nella Genesi) a espressione di proprietà di mezzo di produzione e quindi a fattore centrale, anch’esso, di confronti e conflitti.
(1- continua)