Un durissimo attacco al mondo-neve (sci e indotto), in un momento particolarmente difficile come questo (con impianti di risalita chiusi almeno fino a dopo l’Epifania, alberghi altrettanto in stand-by, vuoti e in attesa di futuri, incerti clienti, centri turistici desertificati, divieti di spostamenti, il tutto per di più con la beffa delle copiosissime nevicate di queste ore), è arrivato da un blog di un quotidiano in versione on-line, in un articolo che fin dal titolo vorrebbe confutare le sofferenze del comparto, riportando la sua verità “facendo due conti”. L’analisi si basa su una premessa che somiglia già a una grossolana provocazione: “Gli sciatori si sono ridotti a una fascia calcolata tra l’1 e il 2 per cento, e fanno parte della classe più ricca, tra cui sicuramente si contano numerose tribù di evasori-elusori fiscali. Eppure, la pratica dello sci fruisce di impianti e piste largamente finanziati dagli Stati e dalle Regioni con i soldi delle tasse di tutti”.



“Che gli sciatori siano la classe più ricca non è assolutamente vero – replica Valeria Ghezzi, la presidente dell’Anef (Associazione nazionale esercenti funiviari) -. Gli sci club portano a sciare tantissimi appassionati di tutti i ceti e censi. Spesso lo sci è scelto dai genitori perché attività sportiva sana e all’aria aperta e i prezzi per loro sono calibrati dalle società impianti sulle loro possibilità di spesa (uno stagionale ragazzi sci club con attrezzatura a noleggio e maestro non costa molto di più di alcuni corsi di altri sport che si praticano in città per i ragazzi). Parlare di “tribù di evasori ed elusori” è un’affermazione al limite della diffamazione: immagino evasori elusori siano riscontrabili non di più e non di meno in tutte le categorie di persone, tra i quali magari anche i giornalisti del Fatto (comprese le persone non abbienti, che per uno sconto rinunciano allo scontrino)”. 



Altro punto sollevato riguarda i presunti beneficiari nei territori montani. “Ci sono quasi 5mila e 900 comuni in tutte le Alpi, dove vivono poco più di un milione e mezzo di persone. In Italia solo 23mila persone vivono nelle zone sopra i 1500 metri, quasi 93mila tra i 1200 e i 1499, altrettanti sopra i mille metri, e ancora centomila circa più in basso, a quote dove non si scia quasi più. La nuova amministrazione ‘ribelle’ della Regione Val d’Aosta (126mila abitanti) dichiara ufficialmente che circa il 75% della popolazione si concentra nei 28 comuni che formano la valle centrale non montana”.



“Dire che vi sono parti della Val d’Aosta non montane è un’eresia – replica secca la presidente Ghezzi -. In Trentino i lavoratori vivono in valli a 6-700 m di quota e vengono tutti i giorni a lavorare sopra i 1400mslm (e spesso con la loro auto, perché i trasporti pubblici non funzionano come a Roma e Milano). In realtà gli impiantisti fanno anche presidio del territorio, sotto il profilo idrogeologico, sotto quello degli incendi e in generale del controllo. Gli impianti di risalita permettono che la montagna e la sua straordinaria bellezza non siano appannaggio di un’élite, di pochi eletti in grado di arrivare in cima, ma siano accessibili a tutti, adulti, bambini, giovani e meno giovani”.

Ma proprio sugli impianti di risalita si accanisce l’analisi, sostenendo che le ricchezze prodotte “colerebbero” in poche mani, con i costi che invece si spalmerebbero su tutti. Ci si spinge anche a fare “quattro conti in tasca” ai “novelli autonomisti ribelli aostani”, riferendo di passività per il comprensorio di Weissmatten e di una dotazione giornaliera di 10 mila euro alla Cervinospa, a forfait nel periodo aperto ai soli sciatori professionisti. “L’emergenza pandemica – è la conclusione del blog – dovrebbe spingerci anche a ripensare un’economia alpina davvero alternativa, che vada oltre il modello turistico distruttivo e ingiusto imperniato sullo sci da discesa”.

“In linea generale, anche sulla parte bilanci e numeri – risponde Ghezzi -, l’articolo non riporta fatti ma giudizi. Che la ricchezza ‘coli’ perlopiù in poche mani è affermazione arbitraria ed errata. Tuttavia, invitiamo gli autori di queste affermazioni a non produrre semplici parole, trite e ritrite come “ripensare un’economia alpina davvero alternativa”. Chi fa queste asserzioni deve ormai produrre idee concrete e realizzabili e corredarle di business plan sostenibili e verificabili. Altrimenti si tratta di aria fritta, di un esercizio di stile fatto per distruggere, ma del tutto incapace di costruire. Di fronte a idee concrete e business plan sostenibili, saremo sempre pronti a confrontarci”.

Pochi fatti concreti, sembrerebbe insomma. Meglio restare sui dati certi. La fotografia reale dell’economia dell’arco alpino che si basa sul turismo invernale parla allora di un peso economico stimato tra i 10 e i 12 miliardi di euro tra diretto, indotto e filiera, con lavoro per circa 120mila persone. La chiusura degli impianti di risalita fino a metà gennaio causerà, secondo le stime, una perdita di circa 8,5 miliardi di fatturato, pari al 70% del totale. E sono tante le categorie a subire la mancata apertura della stagione sciistica 2020/2021. Un rapido censimento cita lavoratori impianti a fune, personale cassa skipass e amministrazione, addetti alla pista (gattisti), maestri di sci (400 scuole in Italia, 14.000 maestri e 1,7 milione di allievi nella stagione 2019/2020), noleggiatori di attrezzatura, guide, organizzazioni gare e manifestazioni di vario genere; e poi hotel, case private, appartamenti, B&B, residence; personale nelle strutture ricettive; estetiste, parrucchiere, personale che lavora nelle baite lungo le piste da sci e aprés ski, addetti ai trasporti; e ancora personale di negozi che vendono abbigliamento invernale, alimentari stagionali, ristoranti, bar, pub, discoteche, negozi souvenir, distributori di benzina, imprese artigiane.

Ma non è ancora tutto. “Un ultimo fatto lo voglio ricordare io”, aggiunge Andy Varallo, presidente del Dolomiti Superski, uno dei comprensori sciistici più grandi al mondo: unico skipass per 1200 chilometri di piste in 12 zone sciistiche, un’area di circa tremila chilometri quadrati, “nata” nel 1974 a cavallo tra Trentino, Alto Adige e Veneto, con circa 450 impianti di risalita, da Cortina all’Alta Badia, da San Martino di Castrozza alla Val di Fassa o alla Val Gardena. “Da dieci anni le Dolomiti sono “patrimonio naturale dell’umanità” riconosciuto dall’Unesco. Se l’Italia può vantare questo riconoscimento il merito va anche a noi, a chi ogni giorno, con il suo lavoro, la sua iniziativa, i suoi rischi consente di far conoscere a tutti una così grande bellezza, dando una possibilità di vita e lavoro a questi territori e a questa gente”.