L’essenza ultima dell’intervista di Marina Berlusconi al Corriere della Sera  pare la rivendicazione piena e aperta dell’eredità del padre, anche nel conflitto di interesse: quello per antonomasia nella storia italiana recente, importante e irrisolto a maggior ragione dopo la scomparsa del Cavaliere.



Quando la presidente di Fininvest affronta temi squisitamente politici – criticando il Governo Meloni – sulla prima pagina del più diffuso quotidiano nazionale, afferma in modo visibile di sentirsi “proprietaria” di ultima istanza di Forza Italia: partito fondato dal Cavaliere nel 1994 e tuttora rappresentato in Parlamento, parte della maggioranza di Governo. Ma Marina è divenuta nel contempo azionista di maggioranza di Mediaset, dove il fratello Piersilvio si accinge a rivestire pieni poteri manageriali. La primogenita del Cavaliere parla quindi dal vertice di uno dei due principali oligopolisti della tv commerciale in Italia (l’altro è la Rai, tv di Stato). Mediaset è in questa posizione – unica in Occidente – dal 1990, sulla base di una regolamentazione solo “manutenuta” da Governi e Parlamenti via via succedutisi. Sempre con il Cavaliere protagonista: capace di difendere con successo il “conflitto” anche dai richiami sempre più perentori dell’Ue a modificare una normativa sempre più lontana dai format di una democrazia di mercato.



Perché quest’uscita? Perché ora? La risposta della generalità degli osservatori è stata pressoché tautologica: per riaffermare il ruolo del Partito-Azienda negli equilibri politico-finanziari nazionali. Ma quasi tutti i commenti hanno lasciato nell’implicito le ragioni presumibili di una mossa per molti versi impegnativa, proprio a cominciare dalla riproposta visibile del conflitto d’interesse ereditato dai due figli del Cavaliere.

Vi sono pochi dubbi che fra Arcore e Cologno siano seri i timori che la presidente del Consiglio voglia mettere mano alla legge Gasparri. Alle ultime europee ha riportato un netto successo elettorale, di riconferma di quello ottenuto del 2022 e – almeno sulla carta – ha davanti tre anni per accelerare una fase di governo riformistica (anzi: la richiesta di riforme di ogni genere giungerà più pressante proprio dalla nuova legislatura Ue).



A differenza del passato, palazzo Chigi non sembra poter contare né sulla Rai (tradizionale roccaforte statalista del centrosinistra), né su Mediaset, che nella gestione privatistica degli tradizionali equilibri “settentrionali” fra Forza Italia e Lega (fra i quali Fratelli d’Italia è sempre stato comprimario) sta ora aggiungendo attenzioni per il centrosinistra (emblematico lo spazio aperto a Bianca Berlinguer).

Un intervento radicale sulla normativa dei media in Italia (ferma alla centralità della vecchia tv commerciale, nell’era dell’intelligenza artificiale) sembra comunque inattaccabile da qualsiasi fronte: l’Ue stessa sarebbe preoccupata sullo stato della libertà d’informazione in Italia. L’ipotesi di un “disarmo simmetrico” di Rai e Mediaset (con la privatizzazione di una o più reti Rai e una completa liberalizzazione della concorrenza editoriale multipiattaforma) è da anni su molti tavoli. Ed è un fatto che Meloni dialoghi con Elon Musk, mentre avanza – pur fra mille lentezze – lo scorporo in parte “ripubblicizzatorio” della rete Tim, finalizzato anche a un’accelerazione vera della transizione digitale nel Paese. Non certo da ultimo: Mediaset – come Fiat/Stellantis – ha portato da anni la propria sede in Olanda. Mfe (radicata nel duopolio dirigistico in Italia) sta perseguendo in Europa una strategia di crescita di puro mercato. Mentre in Italia ha sempre goduto di una protezione a livello parapubblico dalle mire di Vivendi, Mediaset sta tuttora cercando l’acquisizione di controllo di Prosiebensat1, nel centro Europa.

È con molta evidenza questo scenario che ha spinto Marina Berlusconi a uscire allo scoperto due settimane dopo un euro-voto che ha cancellato molte vecchie coordinate della politica europea. Chi potrà difendere Mediaset senza più la presenza in campo di un Cavaliere ricchissimo anche di relazioni e di asset politici? Le movenze della Presidente di Fininvest sembrano prefigurare in modo più accentuato l’apertura delle reti Mediaset a volti, voci e contenuti graditi al Pd e che troverebbero sempre meno spazio in Rai. Appare una scommessa in sé ragionevole. ma pur sempre una scommessa.

Non è affatto detto, anzitutto, che il riassetto in corso in Rai escluda forme di compromesso fra “Giorgia” ed “Elly”. Che si riconoscono ormai a vicenda come “duopoliste” della politica italiana, come protagoniste annunciate di una lunga campagna elettorale fra una Premier in carica e una “Premier ombra”. Due donne giovani per una “terza repubblica” che promette di pensionare definitivamente molti protagonisti della seconda, se non ancora attivi dalla prima. Può darsi che Schlein – consolidata e smaliziata dal voto rispetto agli esordi – non disdegni le attenzioni di Mediaset: ma l’antropologia politico-mediatica della tv berlusconiana (o “tout court” quella archetipica del fondatore scomparso) rimane lontana anni luce da un elettorato Pd che si va ricomponendo attorno a “Elly” e che potrebbe semmai trovare, nella galassia Fininvest, qualche punto di contatto nelle case editrici.

Sarà in ogni caso curioso osservare quali saranno le reazioni del centro-sinistra italiano all’accenno di mutazione politico-culturale della prima erede Berlusconi. Soprattutto quando i tweet del Pd restano pieni di allarmi sulle “mani della destra sui media”. Chissà se il (fantomatico) rapporto Ue sulla crisi della libertà d’informazione in Italia che Ursula von der Leyen avrebbe bloccato in extremis denunciava solo la campagna acquisti del gruppo Angelucci su alcuni quotidiani a bassa tiratura e su agenzie minori. Oppure se attaccava anche la posizione dominante di un Partito-Azienda affiliato in Europa al Ppe della stessa “Ursula”.

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