Quando Nicola Zingaretti si è candidato a segretario del Pd era il 10 marzo del 2018. Furono molti a deriderlo, perché non aveva, secondo alcuni, le “palle” per sconfiggere Renzi, ancora padrone indisturbato del partito; e perché, secondo altri, non vi era alcuna possibilità che il Pd potesse arrivare vivo alle elezioni successive, cioè le europee del 2019.
Costoro oggi sono costretti a ricredersi e dovrebbero ammettere pubblicamente di aver preso un gigantesco granchio.
Zingaretti ha dovuto con calma serafica attendere mesi prima che il congresso si celebrasse. Poi ha dovuto assistere – senza scomporsi – al gioco infinito delle correnti del partito, intentato con l’unico scopo di impedirgli l’elezione diretta e costringerlo ad un “patto leonino”.
Vinte le primarie contro l’apparato e grazie al sorprendente risveglio del popolo della sinistra, quindi incoronato segretario con un voto massiccio ed inaspettato, gli sono rimasti appena 30 giorni per preparare liste e manifesti per la campagna elettorale.
Con una tenacia che nessuno gli aveva riconosciuto fino a quel momento, ha costruito le condizioni affinché si ritrovassero nelle liste del Pd figure indipendenti, di segno politico anche assai diverso tra loro, riaprendo con coraggio la porta a chi se ne era andato sbattendola.
Ha schierato figure del calibro di Pisapia, artefice del miracolo milanese, accanto al più irrequieto e liberal ex ministro Calenda. Ha chiesto al magistrato Franco Roberti, ex procuratore antimafia, di mettersi alla guida dell’esercito in rotta al Sud, dove l’avanzata grillina alle politiche era stata devastante, con il compito di riorganizzare le forze ripartendo dalla lotta alla mafia e all’illegalità.
Ha riconfermato, senza cedere a chi sperava nella vendetta, alla guida della lista nell’Italia centrale la turbo-renziana Simona Bonafè.
Si è spinto a mettere nelle stesse liste i rappresentanti di Macron e i parlamentari uscenti di Leu, giovani promettenti come Majorino accanto a vecchi capitani di lungo corso, come l’ex ministro dell’Agricoltura Paolo de Castro.
Un capolavoro. Anche in questo caso un po’ deriso dai soliti saputoni, quelli a cui non basta mai niente e ogni cosa è un’ammucchiata indigeribile.
Ma l’operazione più rilevante Zingaretti l’ha realizzata durante la campagna elettorale, guidata in prima persona, riuscendo nell’impresa di presentare un partito compatto. Senza mai alzare la voce, ha fatto in modo che il Pd risultasse all’improvviso un partito unito, dove non si litigava ogni mattina e dove ogni fazione si augurava perfino la sconfitta pur di non veder prevalere l’altro. Un partito all’improvviso trasformato in un partito vero: combattivo, rispettoso delle figure indipendenti a cui si era chiesto un aiuto, sereno e chiaro nel messaggio programmatico.
Una volta sola gli è toccato alzare la voce: per affrontare lo spinoso caso giudiziario in Umbria e i colpi di testa dell’ex governatrice Marini, coinvolta in una storiaccia di concorsi truccati nella sanità regionale. Anche in questo caso ha avuto ragione lui, visti i risultati amministrativi nella ormai ex regione rossa.
Il successo del 26 maggio è il frutto di tutto questo lavoro, apprezzato dai veri elettori di sinistra, quelli della pancia profonda del Paese. Come un sospiro di sollievo, un abbraccio a qualcosa di importante che pensavi perso per sempre.
Si fa presto a dire che il Pd rimane comunque un partito isolato con il suo 22,7%. Eppure la sua risalita ha reso a tanti più sopportabile la schiacciante vittoria di Salvini. Il secondo posto riporta le cose al punto di partenza. Si può ricominciare a tessere la tela per costruire una nuova maggioranza che dovrà sconfiggere l’armata leghista e riparare ai guasti del governo gialloverde.
La posizione del Pd appare molto più comoda di quella dei suoi avversari. Volete votare? Votiamo, siamo pronti, non scapperemo di certo, sembra dire Zingaretti. Ma se non volete votare va bene lo stesso, abbiamo tanto lavoro da fare.
Anche il voto amministrativo con la vittoria al primo turno dei sindaci Pd di Firenze, Bari e Bergamo rappresenta un bel segnale. Così come la supremazia nelle città-chiave del paese come Torino, Milano e la stessa Roma.
Tutte rose e fiori? Non scherziamo, il lavoro è solo all’inizio ed adesso arriva il difficile. La perdita del Piemonte, anche se scontata, preannuncia quella che sarà la difficile fase del rinnovo nel 2020 di diversi consigli regionali. L’avanzata della Lega nelle regioni rosse è consistente e non appare momentanea. Bisognerà inventarsi qualcosa di serio per mantenere almeno Emilia-Romagna e Toscana. Così come al sud il Movimento 5 Stelle perde ma non crolla del tutto e conserva in alcune zone una forza considerevole, oltre il 40%, forse anche per gli effetti della prima distribuzione del reddito di cittadinanza.
Sullo stato dei conti pubblici sarà difficile per il Pd sottrarsi dal ruolo fastidioso della cassandra filo-burocrati di Bruxelles.
Infine tutti si aspettano che Zingaretti prima o poi dovrà fare i conti con il tema dell’alleanza con quel che resta dei 5 Stelle. Tema tabù nel Pd. Nervo scoperto di quel che resta del renzismo militante nel partito. Anche su questo fronte Zingaretti non dovrà fare altro che aspettare che siano gli stessi attuali alleati di governo a consumare le loro rispettive chance e rendere esplicita la loro incompatibilità. Solo allora, e solo dopo un voto, il problema si porrà e potrà essere affrontato.