La prevalenza degli uomini rispetto alle donne in posizioni di responsabilità in campo politico, economico, accademico e sociale, ha radici molto antiche. Nei posti di comando, sia nelle civiltà occidentali che in quelle orientali, ci sono stati quasi sempre solo uomini. Le eccezioni sono state rare. Tacito, nella sua opera etnografica “Germania”, ne evidenziava una, quando rimarcava la peculiarità dell’organizzazione del popolo scandinavo dei Sitoni, che era comandato da una donna. 



Forse trascinati dall’inerzia, a lungo non ci siamo più chiesti quali fossero le ragioni storiche, tecnologiche e culturali che avevano determinato questo divario di rappresentazione, né se queste motivazioni sussistessero ancora, o se, al contrario, fossero superate. Le società hanno così probabilmente dato per assodato che certi ruoli fossero più adatti agli uomini che alle donne. 



Recentemente qualcosa sta cambiando, ma a un passo che, almeno in Italia, troppo da vicino ricorda quello di una lumaca. I numeri restano in alcuni casi impietosi. A fine 2020, solo 7 rettori sugli 84 delle Università italiane erano donne. Il Consiglio Superiore della Magistratura non ha mai avuto più di un quarto dei suoi membri donna (e in alcune occasioni il rapporto fra donne e uomini è stato di uno a dieci), benché più della metà dei giudici ordinari siano donne. Va un po’ meglio, almeno considerando i numeri complessivi, la presenza femminile in politica. Le donne sono circa il 35% dei Parlamentari italiani, e un terzo dei ministri. Tuttavia, anche in questo caso, la grande maggioranza delle posizioni di vertice è occupata da uomini. Mai, ad esempio, una donna è stata Presidente della Repubblica o Presidente del Consiglio. Il settore bancario è, nelle sue posizioni di vertice gestionale, quasi totalmente maschile, e la recentissima nomina di Elena Goitini come di amministratore delegato di Bnl-Bnp Paribas ha rappresentato il primo caso di donna chiamata alla guida di una grande banca in Italia.



Si è da più parti evidenziato che i protagonisti della recente crisi di governo sono stati tutti uomini. E forse le poco edificanti scene che abbiamo potuto vedere durante – e dovuto immaginare prima e dopo – i dibattiti parlamentari sono legate anche a questo. A ciò si contrappone il consenso generalmente riscosso, fra gli italiani, dalle poche donne che occupano posizioni apicali, in Italia o all’estero. Si pensi, ad esempio, all’ampio apprezzamento di cui godono, nel nostro contesto, Marta Cartabia, ex Presidente della Corte Costituzionale o la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. 

È urgente chiedersi se tale sbilanciamento, oltre a creare ovvi problemi di rappresentatività democratica, abbia anche delle conseguenze sull’efficienza e sull’efficacia dell’azione delle istituzioni. La risposta, proveniente da diversi studi economici, è univocamente sì. Vediamo alcuni degli esempi, riferiti principalmente al campo della politica. 

Innanzitutto, i dati mostrano che l’aumento della rappresentanza femminile in politica induce i partiti a selezionare candidati migliori. In primo luogo perché, in media, le donne candidate hanno un livello di istruzione più alto dei loro colleghi maschi, nonché un’esperienza lavorativa pregressa mediamente più qualificata. Ma anche per un effetto collaterale forse più sorprendente: là dove ci sono più donne candidate, anche il livello medio di istruzione dei candidati maschi è più elevato. Il risultato si presta all’interpretazione secondo cui, di fronte a una concorrenza femminile numericamente consistente e mediamente più qualificata, i partiti reagiscono tagliando la parte di candidati maschi meno presentabili, così innescando un circolo virtuoso che migliora la competenza dell’intera classe politica. Questi risultati sono stati ottenuti in diversi studi (nota per chi conosce l’econometria: si tratta di risultati causali, non di semplici correlazioni), fra cui quello di A. Baltrunaite, P. Bello, A. Casarico e P. Profeta [1], che utilizza dati italiani, e quello di T. Besley, O. Folke, T. Persson e J. Rickne [2], che invece utilizza dati svedesi. 

Inoltre, le donne sono in grado di influenzare decisamente l’agenda decisionale. L’analisi dei dati rivela, ad esempio, una loro maggiore attenzione verso i temi della famiglia e dell’istruzione. Come evidenziato dallo studio di M. Braga e F. Scervini [3], ne deriva un aumento del tasso di fecondità, risultato particolarmente importante in un Paese come l’Italia caratterizzato da trend di natalità preoccupanti. 

Anche per il nostro mondo dell’Università un aumento della presenza femminile in posizione di vertice (obiettivo peraltro non difficile da perseguire, vista la ben poco rosea situazione di partenza a cui si è accennato prima) porterebbe un’auspicabile ventata di novità. Sarebbe particolarmente bello e importante dare un segnale forte proprio in questo settore, così cruciale per delineare il futuro del Paese. 

[1] Audinga Baltrunaite, Piera Bello, Alessandra Casarico, Paola Profeta, “Gender Quotas and the Quality of Politicians”, Journal of Public Economics, 2014, vol. 118, issue C, 62-74.

[2] Timothy Besley, Olle Folke, Torsten Persson, Johanna Rickne “Gender Quotas and the Crisis of the Mediocre Man: Theory and Evidence from Sweden”, American Economic Review 2017, 107(8): 2204-2242.

[3] Michela Braga, Francesco Scervini, “The performance of politicians: The effect of gender quotas”, European Journal of Political Economy, Volume 46, January 2017, Pages 1-14.

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