Rischiamo, purtroppo, di cadere sempre di più in una nuova (e antica) ideologia: quella del manicheismo. La tentazione di dividere tutto in bianco o nero, in bene o male, in positivo o negativo. Così come, si afferma con sempre maggiore convinzione, che non ci sono più le mezze stagioni, che è scomparso il ceto medio, che non è più vero che “in medio stat virtus”. E avanza la logica degli slogan, delle soluzioni facili, dei programmi di brevissimo termine senza tener conto delle conseguenze future.
Non è un caso che in questo scenario politico-sociale sia sparita una prospettiva, come quella della terza via, che aveva raccolto adesioni formali (e scarse applicazioni pratiche) nella seconda metà del secolo scorso, soprattutto sotto la spinta dell’allora Premier laburista inglese Tony Blair. La terza via era un’espressione efficace per indicare una politica che riuscisse a cogliere il meglio, abolendo nello stesso tempo i risvolti negativi, sia dell’economia di mercato di impronta liberale, sia del socialismo di derivazione marxista. L’ipotesi è rimasta un monumento alle buone intenzioni per una ragione principale: non esiste un punto di incontro tra due politiche che si muovono su strade completamente diverse. Il socialismo concepisce la società con un ruolo centrale e propulsivo dello Stato, mentre il liberalismo parte dal basso ponendo al centro la libertà delle persone sulla base di iniziative e proprietà private.
Ma resta intatta l’esigenza di superare i limiti del liberalismo, soprattutto nella dimensione dell’equità e dell’uguaglianza, e le distorsioni del socialismo, soprattutto per contrastare il dominio di una politica che diventa sovranità burocratica. Ecco allora avanzare l’indicazione di una vera e concreta terza via, un percorso che ha alla sua base il principio di sussidiarietà e che si muove spezzando le catena di Stato e Mercato valorizzando al massimo la logica dei beni comuni. È la riflessione che viene condotta da Johnny Dotti e Andrea Rapaccini, due imprenditori con una forte esperienza nel campo dell’economia sociale e “generativa”, nel libro “L’Italia di tutti, per una nuova politica dei beni comuni” (Ed. Vita e pensiero, pagg. 158, € 14).
Un libro che si muove in un contesto italiano nell’ottica del premio Nobel dell’economia di dieci anni fa, Elinor Ostrom, un’economista americana che ha avuto il merito di portare alla ribalta non solo le caratteristiche, ma anche le necessità di governance, di regole, di controlli che possano sviluppare la fruibilità collettiva di risorse limitate: dall’acqua ai boschi, dal paesaggio alla cultura.
Nella convinzione che esistono le persone, le comunità, le istituzioni, in un’interazione continua che parte dall’antropologia e arriva alla definizione di una struttura giuridica dinamica ed essenziale. “Una terra tutta da disegnare” spiega Francesco Gaeta nell’introduzione di un libro che non vuole presentare delle ricette, ma solo indicare un cammino alternativo agli schematismi di un’economia razionale e astratta e di una società che ha nella carenza di partecipazione uno dei suoi talloni d’Achille più pericolosi.
La sfida, spiegano Dotti e Rapaccini, è quella di spingere, anche e soprattutto culturalmente, per una politica “che apra a modelli e soluzioni nuove in grado di allineare gli interessi dello Stato e del Mercato con quelli dei cittadini: si tratta di modulare strategie in campo sociale, economico e politico basate su di una nuova linfa di pensiero, su un nuovo modello culturale”. Sì, culturale. Perché alla base c’è la visione che ogni persona, ogni cittadino, ogni elettore potrebbe avere di una società in cui si è protagonisti: perché i beni di tutti non sono genericamente beni pubblici, ma sono di ciascuno. Con libertà e responsabilità.