Caro direttore,
Repubblica, con particolare evidenza al centro di un’escalation a più voci, ha denunciato ieri la mancata abrogazione dei decreti sicurezza, a ormai quattro mesi dall’entrata in carica del governo Conte 2.

Non si vuole qui minimamente entrare nel merito dell’evoluzione delle politiche di gestione e regolazione dei flussi migratori in Italia. Come tutte le azioni del potere legislativo e di quello esecutivo, anche i “decreti Salvini” sono e rimangono il risultato del funzionamento della democrazia repubblicana e quindi sono naturale oggetto di confronto fra le libere espressioni di opinione e di stampa tutelate dalla Costituzione.



Ai profili costituzionali dei decreti sicurezza si riferisce peraltro in dettaglio un articolo quando annota: “…il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha promulgato i decreti ma il secondo è stato accompagnato da una serie di rilievi che il Quirinale si aspetta di veder applicati al più presto. Anche perché, spiegano al Colle, ‘quando si scrivono delle note a corredo della firma il pensiero sottostante è che potrebbero esserci dei problemi con la Corte costituzionale’. Ovvero un pezzo dei decreti Salvini è contro la nostra carta. Un allarme abbastanza esplicito e grave”.



Premessa e scontata, naturalmente, l’attendibilità della citazione ufficiosa di ambienti del Quirinale, la narrazione giornalistica non può non suscitare alcuni spunti interrogativi.

Il decreto sicurezza cosiddetto “bis” è stato definitivamente convertito in legge dal Senato – con questione di fiducia – lo scorso 5 agosto: con 160 favorevoli, 57 contrari e 21 astenuti (presenti 289 senatori su un plenum di 315+6 senatori a vita). Il provvedimento è stato promulgato dal Presidente della Repubblica l’8 agosto successivo, accompagnato da una lettera al presidente del Consiglio (ancora Conte 1) e ai presidenti di Camera e Senato.



Nel reiterare una serie di perplessità sul contenuto del provvedimento, il Presidente ha legittimamente esercitato un potere costituzionale: l’articolo 87 prevede la facoltà di “inviare messaggi alle Camere” addirittura prima di specificare il suo intervento indispensabile al processo legislativo nella “promulgazione delle leggi” e nell’“emanazione dei decreti aventi valore di legge” (l’articolo 89 stabilisce, poi, che “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”). La legge 8 agosto 2019 n. 77 è comunque entrata in vigore il giorno dopo con piena efficacia, con la prevista pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (il governo giallo-verde si è dimesso 12 giorni dopo, per essere poi sostituito dal “giallorosso” Conte 2).

Il Presidente della Repubblica avrebbe potuto non promulgare il “decreto sicurezza-bis”? La risposta è senz’altro affermativa. Sul piano formale, l’articolo 74 della Carta prevede che “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”.

Sul piano sostanziale, lo stesso Mattarella (già giudice costituzionale) è stato protagonista nel 2017 di un caso senza precedenti: ha negato la promulgazione e rinviato alle Camere un provvedimento di legge già votato virtualmente all’unanimità dai parlamentari sul contrasto al finanziamento alla produzione di mine anti-uomo. Nel mirino del Quirinale è finita la previsione di uno “scudo penale” per una serie limitata di soggetti che rivestissero ruoli apicali e di controllo (per esempio, i vertici degli istituti bancari, delle società di intermediazione finanziaria e degli altri intermediari abilitati).

Una volta che un provvedimento di legge è in vigore, qualunque soggetto titolato può poi ricorrere alla Consulta, sollevando questioni di costituzionalità. È stato così per l’originario “decreto sicurezza” varato dal vicepremier e ministro dell’Interno nell’ottobre 2018.

Già nei primi giorni del 2019, cinque Regioni si sono appellate alla Consulta: Calabria, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Umbria. La Corte si è pronunciata lo scorso 20 giugno (con motivazioni depositate il 25 luglio, mentre era in corso la discussione parlamentare sul decreto-bis), respingendo la fondatezza dei ricorsi per assenza di motivazione. L’ufficio comunicazione della Corte ha specificato che “la Corte ha ritenuto che le nuove regole su permessi di soggiorno, iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo e Sprar sono state adottate nell’ambito delle competenze riservate in via esclusiva allo Stato in materia di asilo, immigrazione, condizione giuridica dello straniero e anagrafi (articolo 117, secondo comma, lettere a, b, i, della Costituzione), senza che vi sia stata incidenza diretta o indiretta sulle competenze regionali”. La Corte ha ritenuto però che sia stata “violata l’autonomia costituzionalmente garantita a comuni e province rispetto ai forti poteri che la legge attribuiva ai prefetti”.

Nei giorni dell’approvazione del decreto-bis, un magistrato del Tribunale di Milano ha rimesso alla valutazione della Consulta la norma del primo decreto che nega al migrante in possesso di permesso di soggiorno per richiesta di asilo l’iscrizione all’anagrafe (la regola era già stata disattesa da giudici di Firenze, Bologna e Genova).

Lo scorso novembre, infine, la Corte di Cassazione a sezioni riunite ha stabilito che il decreto Salvini non può essere applicato in modo retroattivo, ma ha precisato che “il solo dato di essersi inseriti socialmente e economicamente nella società italiana non è sufficiente per dare ai migranti il permesso di soggiorno per motivi umanitari: occorre comparare anche la ‘specifica compromissione’ dei diritti umani nel paese di origine di chi richiede il permesso di soggiorno per motivi umanitari”.

In attesa di nuovi possibili sviluppi sul fronte articolato delle magistrature, il confronto sui decreti sicurezza, nell’immediato, sembra destinato a continuare su un terreno essenzialmente politico. Un terreno dove certamente, da tempo, trova spazio di assodata legittimità costituzionale un modus operandi del Presidente della Repubblica ispirato a un’interpretazione avanzata del suo ruolo di garanzia ultima della vita della Repubblica: come ha ricordato anche l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, proprio all’indomani della promulgazione del decreto-bis. “È giusto che il presidente della Repubblica prenda una decisione di moral suasion, come ha già fatto la prima volta” ha detto Flick, che pure ha detto di aver “amaramente constatato che, se si ripete il bis, vuol dire che l’ammonimento non ha funzionato. Il presidente della Repubblica non ha il potere di bloccare una legge, ma può soltanto ammonire e chiedere che venga riesaminata. In questo caso perché vengono meno princìpi del diritto e dell’etica internazionale, del modo di convivere e il principio del salvataggio in mare”.