È mesto fare una graduatoria dei problemi che affliggono l’Italia, quando ciascuno di questi ha una sua importanza ed una sua priorità. Difficile e triste è il dire cosa venga prima e cosa dopo: stilare priorità è fonte di conflitti, ma anche di amarezza.

Occorre cambiare logica. Pertanto, spiace dirlo, ma la precedenza non può essere data al problema immigratorio, né alle inchieste giudiziarie, né ai progetti “green” o “di inclusione”, né alla lotta alla criminalità o alla battaglia per i diritti civili. In un Paese che sottoscrive l’etica della responsabilità, la scala delle priorità non può avere al suo primo posto che le condizioni di funzionamento primario: quelle che, mettendo “la macchina in moto”, forniscono l’energia per alimentare tutto il resto e senza le quali anche il progetto più nobile si annulla sul nascere, in quanto si rivela sostanzialmente irrealizzabile.



Beninteso, anche problemi come l’immigrazione, la corruzione o, in direzione positiva, l’avvio della rivoluzione digitale, vanno affrontati immediatamente. Ma ciò va fatto in modo parallelo, magari con il lavoro delle commissioni parlamentari che procedono con la loro specifica autonomia. Si tratta infatti di problemi da paese sviluppato; buoni per un sistema che ha già risolto i propri problemi di funzionamento-base. Sono i problemi per un sistema che è già fondato su di un’economia produttiva pienamente funzionante e su di una burocrazia impeccabile (quindi non corrotta) ed efficiente (e pertanto capace di favorire le iniziative anziché ostacolarle).



Qualsiasi anticipazione in termini di progetto è infatti poco più che risibile. Ci stiamo preoccupando per i banchi anti-Covid, quando abbiamo una quota più che consistente della nostra edilizia scolastica a rischio crolli. Così come ci preoccupiamo dello spreco dell’acqua, quando facciamo finta di non ricordarci di quanta ne venga dispersa nelle condotte idriche fatiscenti. Ci accingiamo a preoccuparci per “l’inclusione”, quando abbiamo la metà dei nostri giovani diplomati (dati Istat) che rinuncia ad iscriversi all’università (quindi si autoesclude). E questo non certo perché l’università abbia alzato i propri criteri di selezione (tutt’altro), ma semplicemente perché non crede che, nel nostro Paese, l’impegno di cinque anni di studio porti da qualche parte. Così come non crede – ed è certamente ancora più grave – che ci siano ancora gli spazi per un progetto di vita, tanto è vero che il nostro tasso di natalità è il più basso d’Europa.



Se da decenni la nostra economia ristagna pur avendo al suo interno alcune tra le migliori tradizioni manifatturiere del mondo, la colpa non è della globalizzazione, quanto del nostro sistema legislativo che non è stato all’altezza di velocizzare i processi di insediamento e di messa a regime di qualsiasi progetto produttivo, anzi li ha ostacolati.

Il semplice fatto che ci vogliano anni per attraversare le decine di passaggi burocratici che oramai bloccano qualsiasi iniziativa fa tremare le vene ai polsi. Ed a ben poco serve indignarsi per i profitti illeciti di Tizio o la corruzione di Caio, come i nostri amici dei 5 Stelle continuano a fare: è stata proprio la volontà parossistica di controllo che ha azzoppato la capacità produttiva di quella che era una delle prime cinque economie industrializzate del mondo, senza peraltro essere riuscita a liberarla dalla corruzione.

Fino a quando non si ritornerà ad avere un’economia produttiva ed un governo autorevole, qualunque discorso “green” o “inclusivo” non saranno che etichette retoriche per un pachiderma che non può più muoversi, né oramai è capace di farlo. Sotto quest’aspetto lo stesso dibattito sul prendere o meno “i soldi del Mes” o quelli del Recovery Fund ha qualcosa di “lunare” in quanto, fosse anche inondato da un fiume di miliardi, il nostro attuale sistema politico-amministrativo non sarà certamente capace di spenderli, come già lo dimostrano le famose novanta opere pubbliche primarie già finanziate ed ancora non attivate (delle quali, misteriosamente, non si parla più).

Solo con un apparato produttivo-amministrativo restituito alla libertà degli imprenditori e all’accompagnamento competente (e non invalidante) degli amministratori, è possibile produrre posti di lavoro e far ripartire tanto l’economia quanto i consumi, recuperando risorse per quella stessa assistenza socio-sanitaria oggi in crisi profonda, che può tornare ad essere alimentata da un’economia reale, e non solo da prestiti graziosamente concessi. Così come solo con un governo autorevole, liberato dall’oppressione di una magistratura impropriamente dotata (grazie all’ahimè nuovo codice di procedura penale) della possibilità di far precedere ogni giudizio dalla gogna mediatica degli avvisi di garanzia, si può risolvere il problema della credibilità politica che abbiamo perso.

La soluzione risiede ancora, tutta intera, nella possibilità di liberare i nostri imprenditori e i nostri amministratori dalla gabbia nella quale li abbiamo imprigionati. Solo una leadership politica che ha il coraggio di operare una tale liberazione può ragionevolmente far sperare in un reale recupero. Il resto è solo retorica, per di più di scarsa qualità: non possiamo più permettercela.