Commentando sulla Stampa il caso dell’imam all’Università di Torino, Vladimiro Zagrebelsky ha puntato il dito su un profilo – a suo avviso particolarmente grave – di violazione del principio di laicità dello Stato.
Una predica antisionista (antisemita?) da parte di un esponente del clero islamico, in un ateneo statale, senza autorizzazione da parte delle autorità accademiche e in un contesto di occupazione filopalestinese del campus: per Zagrebelsky – magistrato e giurista, a lungo giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo – non vi sono dubbi sulla “incostituzionalità” della vicenda. Dargli torto sembra difficile, ma anche dargli completamente ragione in un quadro più ampio.
L’uscita sembra soprattutto un momento di una delle tante guerre culturali accese – o riaccese – dalla guerra-guerra di Gaza. Zagrebelsky – torinese di tradizione laica – ha indubbio buon gioco quando scatta un’istantanea dell’ateneo di casa (dove il rettore “statale” ha comunque deciso di non intervenire né prima, né dopo la visita dell’imam). Avrebbe qualche ragione anche a lamentare l’impar condicio rispetto alla Statale di Milano: dove le autorità accademiche – d’intesa con quelle cittadine di pubblica sicurezza – hanno cancellato un evento promosso da alcune associazioni italo-israeliane, sempre su pressione degli studenti filopalestinesi. Le riserve di Zagrebelsky sembrano comunque mettere nel mirino – ancora una volta – la scelta di fondo di rispettare tutte le manifestazioni filopalestinesi: imposta dalla presidenza della Repubblica, con presa d’atto da parte di un Governo che aveva mostrato orientamenti diversi.
Se è vero che Sergio Mattarella ha poi raccomandato “tolleranza” e “moderazione” nelle proteste, Zagrebelsky non ha certo torto a censurare (all’interno di una democrazia laica europea) un imam che in una scuola pubblica predica la guerra di armi e di parole contro il popolo ebraico. Però, spostando lo sguardo più in là dei confini italiani in questi stessi giorni, non appare al riparo da obiezioni neppure il Governo di Gerusalemme. Qui Bibi Netanyahu, i suoi ministri e i media statali sono subito ricorsi alla fatwa dell’antisemitismo per controbattere le accuse di crimini di guerra a Gaza da parte della Corte penale internazionale.
L’imam non ha nessuna giustificazione per quelli che sono, alla fine, incitamenti all’odio (la Cpi ha incriminato, del resto, anche i vertici di Hamas). Ma il Governo di Gerusalemme ha sempre meno ragione quando cerca rifugio nella sfera etnico-religiosa per eludere le proprie responsabilità politico-istituzionali – dentro e fuori il Paese – confondendo antisemitismo, antisionismo, diplomazia, confronto democratico e libertà di pensiero.
Il principio della laicità dello Stato non dovrebbe valere solo per combattere su ogni scacchiere un movimento fondamentalista islamico, comprovato autore di guerre terroristiche. Dovrebbe valere, nel caso, anche per giudicare “l’unica democrazia mediorientale”, nata nella Memoria assoluta della Shoah (lo ha fatto l Cpi, sfidando le fatwe di Gerusalemme non meno di quelle di Hamas). Già prima del 7 ottobre, in ogni caso, Israele si stava segnalando per un’involuzione in senso nazionalistico religioso; nonché per un’escalation “annessionista” dei Territori palestinesi che da 57 anni attendono la loro restituzione ordinata dall’Onu. A marciare in senso contrario – anche in queste settimane – sono le milizie religiose dei coloni fondamentalisti. Sono i ministri estremisti (ben al di là di ogni linea rossa di laicità dello Stato) che hanno sostenuto la sanguinosa distruzione di Gaza, cui ora vorrebbero far seguire una nuova occupazione militare e forse nuove annessioni para-militari condotte dai “settler”.
Il principio della laicità dello Stato vale ancora – almeno sulla carta – negli Stati Uniti. Vale dal 1791: quando il primo emendamento alla Costituzione ha fissato non solo il principio della libertà di parola, ma anche quello della laicità dello Stato. Nel 2024, invece, è quotidiano il bollettino di arresti di studenti e professori e di licenziamenti di rettori – in università private, oggi finanziate in misura importante da donatori israeliti – con l’accusa sommaria di “antisemitismo”: questo per aver dato vita a manifestazioni non violente contro lo Stato di Israele per i fatti di Gaza.
Ora si intensificano le voci di un viaggio del Premier israeliano a Washington, invitato da alcuni congressisti repubblicani, alla quasi-vigilia del duello presidenziale fra Joe Biden e Donald Trump. Un gesto spregiudicato e forse disperato: anche se non sarebbe una prima assoluta per Netanyahu, che nel 2015 volò al Congresso per attaccare il presidente Barack Obama, premio Nobel per la pace. Adesso non è affatto improbabile che – nel cuore della democrazia americana da due secoli e mezzo – il Premier israeliano voglia lanciare una fatwa definitiva contro il Presidente Usa in carica e preventiva contro quello eletto fra cinque mesi dagli americani: verso chiunque – negli Usa – osasse mettere all’appoggio finanziario e militare indiscriminato a Israele “fino alla “vittoria finale” (anche contro l’antisemitismo/antisionismo globali, veri o presunti).
Zagrebelky ha sicuramente ragione ad aver sollevato il tema: la laicità degli Stati (“sana”, insisteva papa Ratzinger) è questione tornata apertissima nel ventunesimo secolo occidentale. In essa emerge in modo paradossale anche il fallimento di quarant’anni di guerre culturali all’insegna del Politically Correct: votate anche allo sradicamento di ogni dimensione religiosa, ritenuta ideologicamente nemica di ogni inclusività. E a predicare il laicismo politicamente ultra-corretto nei campus euramericani – con la stessa foga degli imam abusivi – sono stati cattedratici selezionati per concorso statale o stipendiati da donazioni multi-milionarie. Qualcosa non ha evidentemente funzionato se oggi negli stessi atenei i millennial si attendano per protestare contro Israele e invitano gli imam (talora a predicare l’odio). E forse c’è parecchio di cui discutere prima di chiedere a Governi e capi di Stato di sgomberare a forza le università in nome dell’ordine pubblico negli Stati laici.
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