C’è una sorta di linea ad alta velocità (una freccia se non rossa, quasi) che da Milano arriva fino a Padova, passando per Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza. Non è quella su binari (ancora incompiuta): è un fil rouge che congiunge il capoluogo lombardo con il cuore del Nordest, tutte città in territori a vocazione centrodestra che però votano a sinistra.



Ne sa qualcosa il neosindaco di Vicenza, Giacomo Possamai, l’unico ballottaggio perduto da Meloni & soci all’ultima tornata elettorale, l’eccezione che conferma un vento contrario, un “caso” che varrà la pena esaminare a fondo, più che a destra, proprio nella sinistra, tanto per capire finalmente come si fa e come non si deve fare.



Sindaco, si sente un’eccezione?

Eccezione? Non so. In realtà penso che a Vicenza ci fosse voglia di cambiamento, di una città più aperta, moderna, disponibile, di una più alta qualità della vita. Io ho semplicemente saputo trasmettere la volontà di andare in questo senso.

Lei ha pacatamente rifiutato i grandi testimonial di partito, neosegretaria compresa. Pensa che una campagna per un’elezione amministrativa debba restare sempre distante dalle liturgie partitiche e quindi anche dai big nazionali?

Magari sempre no. Noi però abbiamo fatto una campagna elettorale per la città, e invece i leader nazionali finiscono col trasformare le elezioni amministrative in un derby romano. Non ci interessava. I nostri oppositori hanno fatto esattamente il contrario, Salvini ad esempio è arrivato a Vicenza in più occasioni durante la campagna. Noi abbiamo parlato alla città, della città.



Ha parlato con Elly Schlein dopo il risultato? E cosa si sentirebbe di consigliarle?

Certo, ci siamo parlati, ma non ho davvero particolari consigli da elargire. Lei sa per suo conto che bisogna lavorare sodo, per cercare di riunire un’alternativa valida al centrodestra. Ma nei risultati davvero pesanti dell’ultima tornata elettorale non credo si possano addebitare responsabilità alla Schlein. Il fatto è che nel centrodestra ci sono, è vero, tre alleati, e spesso ognuno dei tre ragiona per suo conto, ma è anche vero che di leader ce n’è uno solo, e si chiama Meloni. Questa nettezza facilita la comprensione, il messaggio arriva chiaro a tutti. Nel centrosinistra ci sono invece almeno tre attori, senza grandi condivisioni e senza un leader unico.

Un tempo si facevano alleanze o coalizioni, oggi si parla di campo largo: c’è differenza?

Be’, un conto sono le alleanze per le elezioni amministrative, un altro quelle per le politiche, che saranno solo tra quattro anni. Per queste ultime è giusto e doveroso pensare ad un campo largo, che ha il compito di omogeneizzare tutte le opposizioni sui grandi temi, quali ad esempio la battaglia sulla sanità pubblica o il cambiamento climatico. Campo largo, alla fine, significa anche il fattore comune sui programmi.

Quanto hanno inciso nella sua campagna e nella grande rimonta dopo il primo turno la sua famiglia (cinque fratelli), la comunicazione, il padre giornalista di lungo corso, e il suo spin-doctor, Giovanni Diamanti (insieme a lui nel 2012 fu volontario nella campagna di Obama), figlio del più noto socio-politologo del Nord? 

Certamente ho potuto contare su un grande team di volontari. Abbiamo lavorato sul porta a porta, quartiere per quartiere, come si faceva una volta, intercettando sentimenti, desideri, criticità, i pensieri della gente. Credo siano stati questi incontri capillari a convincere gli elettori.

Adesso, si sente come a Masada, in una città assediata in un territorio a chiara indole di centrodestra? Cosa accomuna Milano-Bergamo-Brescia con Verona-Vicenza-Padova?

Nessuna sindrome d’assedio. Credo che le città, comprese quelle che ha citato, facciano semplicemente storia a sé, per una molteplicità di motivi, dall’accesso ai servizi alla comunicazione. Le fratture tra centro e periferie sono sempre esistite, ed è un fenomeno oggi ben visibile in tutto il mondo, dagli Usa che hanno votato Trump negli Stati del centro e nelle campagne, alla Gran Bretagna, che ha votato la Brexit ovunque ma non nei grandi centri.

Si direbbe favorevole ad un partito dei sindaci?

No, i sindaci possono dare un grande contributo, ma la loro mission è ben chiara, e diversa. Un partito di amministratori locali non credo avrebbe molto senso.

Si dice che i vicentini siano ancora nostalgici della Balena bianca, la Dc che guidò per decenni le sorti della città e della regione. Lei avverte queste simpatie? E ritiene che in lei i cittadini riconoscano in qualche modo quei valori?

Vicenza è stata governata dalla Dc per cinquant’anni, è chiaro che vi siano forti radici nel territorio, anche oggi, e che certi esponenti moderati vengano a volte premiati per questo. Ma è altrettanto vero che oggi chi ha trent’anni è nato quando la Dc non esisteva già più. Difficile imputare nostalgie o abitudini elettorali.

Sindaco, lei ha vinto con uno scarto limitato, a dimostrazione di un elettorato sostanzialmente spaccato in due. Una situazione che inciderà sul suo mandato?

Spero di no: bisogna sempre ricordarsi di essere il sindaco di tutti, di chi ti ha votato e di chi no, e anche di chi non ha proprio votato. Non è solo un trito modo di dire, è un impegno concreto.

Lei è stato capogruppo Pd in Regione, e ha rifiutato una candidatura praticamente blindata alla Camera. Il suo futuro la vedrà impegnato solo nel suo territorio?

Oggi ho davanti cinque anni che si preannunciano particolarmente impegnativi. Il mio orizzonte arriva quindi solo a cinque anni: il mio futuro è fare il sindaco. Altro non so e non mi domando.

Qual è il primo punto nella sua nuova agenda da sindaco?

Sicuramente la Tav, un progetto complesso che bisogna assolutamente rivedere, sia per la problematica legata ai numerosi espropri necessari, sia per la nuova stazione, attualmente ipotizzata interrata, e che invece mi piacerebbe fosse in superficie, alla luce del sole. Si vedrà.

Buon lavoro, sindaco.

Spero sarà buono davvero.

(Alberto Beggiolini)

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