I misfatti del regime di Recep Tayyip Erdogan non finiscono mai. Mentre il sultano-dittatore si appresta a infliggere il colpo di grazia alla democrazia turca, dopo aver rovesciato il risultato delle elezioni per il sindaco di Istanbul, sta facendo il giro del mondo (senza ancora toccare l’Italia) il caso del palestinese Zaki Mubarak Hasan e della sua morte più che sospetta nel carcere di Silivri, sempre a Istanbul.



Silivri può essere considerata la versione turca dell’Evin di Teheran, per 40 anni il principale luogo di detenzione degli oppositori politici del regime khomeinista iraniano, uomini e donne, soprattutto giovani, vite devastate da torture, maltrattamenti e umiliazioni di ogni sorta.

La prigione degli orrori di Erdogan era già assurta agli onori delle cronache internazionali perché è lì che sono tuttora rinchiusi in stato d’arresto centinaia di oppositori, vittime delle purghe senza fine intraprese, all’indomani del presunto colpo di Stato fallito nel luglio 2016, contro gli acerrimi nemici gulenisti, per i quali è stato persino inventato il nome di una nuova (e inesistente) organizzazione terroristica, quella dei “fethullahisti”, ovvero dei seguaci di Fethullah Gulen, meglio nota con l’acronimo Feto (Fethullahist Terrorist Organization).



Attorno a Silivri sono ancora vive e non accennano a placarsi le polemiche riguardanti le recenti scomparse di Ibrahim Halil Özyavuz, medico, e Zeki Güven, ex alto dirigente della polizia di Ankara, avvenute nella seconda parte del 2018. Güven sarebbe tempestivamente deceduto per attacco cardiaco poco prima della sua testimonianza in aula, nella quale avrebbe potuto rivelare segreti scomodi per il regime erdoganiano. È per questo che nessuno crede alla versione ufficiale diramata dalle autorità penitenziarie, che hanno invece parlato di suicidio per Özyavuz, sebbene gli evidenti segni di torture presenti sul cadavere abbiano convinto i famigliari del fatto che si sia trattato di omicidio.



Le dinamiche relative alla morte e alla successiva riconsegna dei resti di Özyavuz hanno anticipato il caso di Zaki Mubarak Hassan, l’ultimo dei misteriosi decessi occorsi nella prigione degli orrori di Erdogan. Arrestato il 15 aprile a Istanbul insieme a un altro uomo dalle generalità sconosciute con l’accusa di spionaggio per conto degli Emirati Arabi Uniti, a pochi giorni di distanza Hassan è stato ritrovato penzolante all’interno della sua cella con una corda appesa al collo. Di qui la narrativa del suicidio propagandata sia dia media turchi che da Al Jazeera.

I famigliari di Hassan hanno smentito fin da subito tale versione, richiedendo l’immediata restituzione del cadavere per verificare con un’autopsia le circostanze della morte. La restituzione è però avvenuta soltanto dopo 16 giorni, probabilmente il tempo necessario a eliminare o nascondere il più possibile i segni delle torture inflitte al prigioniero. Un tentativo tanto maldestro quanto inutile, come dimostrano il volto sfigurato, il sopracciglio spaccato, gli organi estratti dal corpo insieme alla gola e alla lingua, le unghie strappate, che hanno provocato uno shock nei membri della famiglia alla vista del corpo. Il medico legale turco, racconta disperato il fratello di Zaki, non ha avuto il coraggio d’insistere sul suicidio, scrivendo nel referto “morte causata da circostanze sconosciute”.

La famiglia con il cadavere si trova adesso in Egitto. Il fratello chiede l’intervento del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e denuncerà Erdogan alla Corte dei diritti umani dell’Onu a Ginevra, alla Corte internazionale di Giustizia all’Aja e alla Giustizia francese. Mentre punta il dito su Al Jazeera per aver diffuso una versione distorta dell’accaduto, e su Hamas, il braccio palestinese dei Fratelli musulmani nella Striscia di Gaza, perché avrebbe fornito “falsi rapporti” su Zaki all’intelligence turca. Zaki aveva lavorato nell’intelligence dell’Anp, ma si era ritirato già da tempo. Con il resto della famiglia viveva in Bulgaria, dove aveva avviato un’attività imprenditoriale che intendeva espandere in Turchia. La sua presenza a Istanbul, precisa il fratello, era pertanto dovuta a motivi di affari e gli era stata concessa la residenza sulla base del suo passaporto palestinese e non di quello bulgaro.

Istanbul, tuttavia, ospita numerosi membri di Hamas, e Zaki, che frequentava la comunità araba della città, era notoriamente ostile all’organizzazione islamista. È così che, negli ambienti istambulioti di Hamas, sarebbe nato il disegno di attribuirgli la falsa patente di spia in modo da indurre le autorità turche ad arrestarlo, anche se nessuna prova a supporto delle accuse è stato finora mostrata, malgrado le continue richieste dei familiari del palestinese.

Zaki avrebbe voluto tornare a vivere nella Striscia di Gaza ed essere sepolto lì dopo la sua morte, ma il fratello intende prima completare in Egitto gli esami medici sul cadavere, il cui esito sarà utile nei processi internazionali contro lo Stato turco come prova delle torture e dell’omicidio. A Gaza, infatti, Hamas impedirebbe lo svolgimento di un’autopsia imparziale viste le sue affinità elettive con Erdogan, il quale, afferma la sorella di Zaki, starebbe già facendo pressioni per impedire la formazione di una commissione internazionale d’inchiesta.

In attesa dei prossimi sviluppi nel caso di Zaki Hassan, non si può non constatare il fatto che sotto il regime di Erdogan la Turchia sia diventato un paese sempre più insicuro anche per gli stranieri che vi risiedono o che vi si recano per turismo. La brutalità del sultano-dittatore si riflette nell’operato dei servizi di sicurezza e degli addetti al sistema carcerario, come nell’insistenza con cui infine è riuscita a ottenere la ripetizione del voto per l’incarico di sindaco di Istanbul. Una brutalità pronta a tutto, che non conosce confini e che non si arresterà neppure di fronte a una nuova sconfitta alle elezioni del 23 giugno.