La pandemia ci costringe a vivere, ancora una volta, una Pasqua blindata, con i nuclei familiari isolati, rinchiusi ciascuno in casa propria. Momento propizio dunque per riconoscere il valore irrinunciabile delle nostre famiglie: malgrado i loro limiti e le loro incomprensioni sono le nostre radici, la nostra storia che ci apre al futuro. Bisogna però saper accettare sofferenze e drammi, che arrivano a lasciare segni profondi ma possono essere perdonati: croce e resurrezione sono la legge della vita redenta, che riviviamo nei giorni pasquali.
È proprio questo che ci mostra la storia vera di Jeannette Walls, scrittrice e giornalista, raccontata nell’autobiografia Il castello di vetro (un best seller edito in Italia da Piemme), diventata poi un film con lo stesso titolo, per la regia di Destin Daniel Cretton e con protagonista Brie Larson.
La pellicola ci catapulta in rapporti familiari difficili, benché avvolti dal sincero desiderio di costruire una convivenza alternativa ma autentica, ricca di immaginazione e in definitiva felice. Tuttavia se mamma e papà, pieni di affetto per i loro quattro figli, sono però persone problematiche, a loro volta segnate da genitori irrisolti, i guai non possono mancare. Il primo è terribile: Jeannette, che è la secondogenita, è costretta a cucinare a soli otto anni mentre la madre dipinge senza interrompersi nemmeno davanti alla fame della figlia; la piccola così si ustiona gravemente e la cicatrice le ricorderà per tutta la vita la sua impresa culinaria così precoce. Il papà Rex Walls (ben interpretato da Woody Harrelson) è un uomo affettuoso, ricco di sogni che condivide con i figli, che lo seguono speranzosi nella ricerca instancabile di una magnifica casa per la famiglia: un castello di vetro da cui poter ammirare le stelle, che disegna dettagliatamente con tutti i particolari più affascinanti, ma che in realtà non riuscirà mai a costruire. Lui infatti beve, annega nell’alcool i traumi e le ferite della sua infanzia e, anche se promette ai suoi bambini di smettere, è preda di un demone che non riesce a sconfiggere. Perde così continuamente il lavoro e con i suoi vaga di casa in casa, o meglio da una catapecchia all’altra per sfuggire ai creditori e agli assistenti sociali, patendo spesso anche la fame. Sì, perché anche l’immatura mamma-artista Mary Rose, interpretata da una convincente Naomi Watts, è più occupata a dipingere i suoi quadri che a prendersi cura dei figli, anche se è loro profondamente legata.
Si tratta di due genitori anticonformisti, con una loro originale idea di libertà, che si oppongono all’America edonista e materialista che cominciava ad affermarsi dalla metà degli anni Sessanta. I ragazzi vagabondano perciò senza radici, dalle città del deserto del Sudovest fino ai camping di montagna, senza scuola e senza amici, esposti a incidenti vari e a un’insicurezza continua. Eppure mantengono la fiducia in quel padre e in quella madre, sostenendosi a vicenda, guidati e protetti proprio da Jeanette, la più legata al papà carismatico, uomo brillante ma destinato a continui fallimenti. Man mano che i ragazzi crescono il clima diventa però sempre più oppressivo: l’unica possibilità per costruirsi una vita dignitosa e davvero felice è andare via, lasciare quei genitori che non sono in grado di accompagnarli nella loro formazione e verso la loro realizzazione. L’amore di mamma e papà fa male, occorre avere la forza e il coraggio di abbandonare il nido. La rottura del rapporto privilegiato di Jeannette con il padre Rex apre la strada anche ai fratelli, verso un’autonomia sofferta ma necessaria per liberarsi di tanti traumi. Tuttavia il rancore per un’infanzia troppo dolorosa rischia di avvelenare anche l’età adulta dei figli.
Jeannette, ormai professionista affermata, non riesce a perdonare i genitori, così eccentrici nel loro amore sincero ma in realtà non rispettoso né attento alle esigenze della famiglia che hanno creato. Rex Walls e Mary Rose, avviati all’ultima parte della vita, sono rimasti ancora quei vagabondi che son sempre stati, anche se ora vivono in una casa abbandonata di New York. Jeannette mantiene quel distacco che le ha consentito di diventare una donna di successo, ma interiormente non è ancora pacificata. Il ritrovo con mamma e papà, in vista del suo imminente matrimonio, si rivela un disastro, tanto più che lei e i fratelli vengono a sapere che in realtà i soldi per la loro educazione ci sarebbero stati. La scelta di una totale sobrietà al limite dell’indigenza, che da bambini hanno dovuto subire, è stata dunque un’imposizione insensata. Jeannette, infuriata, deciderà di rompere definitivamente i rapporti con i genitori e così suo padre si chiuderà in un ostinato silenzio, che lo accompagnerà anche negli ultimi tempi della malattia che lo ha colpito, inevitabile esito della sua esistenza sregolata.
Ma il richiamo della madre ad andare a trovare il papà morente non lascia indifferente Jeannette. Anche se con fatica, si reca al suo capezzale e riesce a ridonargli la parola, in un abbraccio finale che dimostra la sua volontà di perdono. È questa la premessa grazie alla quale, quando ormai il padre è stato accolto nelle braccia del Signore, tutti i figli potranno ritrovarsi con la mamma, capaci persino di fare festa insieme e ritrovare quell’amore che pure è stato presente nella loro infanzia tormentata. Come dire che per ogni croce, se ci si affida all’amore, c’è la possibilità di una redenzione-resurrezione, quella che per ogni uomo è il dono di questa Pasqua, nel nome di Colui che in sé ha incarnato Croce e Resurrezione.
Ciò che più ci colpisce in questa storia è la proposta di una visione così profondamente umana, all’interno di una famiglia problematica e instabile; questo può accadere anche nella nostre realtà familiari, terribilmente fragili e confuse. Perché andare oltre le ingiustizie subite può donare speranza anche a tanti ragazzi, figli di situazioni dolorose e apparentemente senza via d’uscita: potranno intravedere così una strada nuova nel coraggio del perdono. È proprio ciò che ha vissuto la Jannette del film.
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