Quella che fanno Fandango e Rai Cinema con Il colibrì non è semplicemente un’operazione cinematografica, ma culturale (di massa o midcult, come la definirebbero i maligni), perché parte da un libro famoso e premiato come quello omonimo di Sandro Veronesi e vincitore dello Strega nel 2020 e lo adatta in modo fedele e professionale, con attori famosi e una co-produzione internazionale, rendendolo un’operazione perfetta tanto per il grande pubblico, quanto per i festival specie quelli cittadini e popolari come Toronto e Roma, la cui Festa del cinema ha infatti scelto come film per l’apertura.



A dirigere il film c’è Francesca Archibugi, anche sceneggiatrice con Laura Paolucci e Francesco Piccolo, e racconta di Marco (Pierfrancesco Favino), il colibrì del titolo, dalla giovinezza negli anni ’70 fino alla sua vecchiaia, dei suoi amori platonici e resistentissimi, come quello con Laura (Béreénice Bejo), a quello realizzato ma distruttivo con la moglie Marina (Kasia Smutniak). Nel mezzo, i saliscendi emotivi e personali, la voglia di resistere agli urti con la voglia di vivere.



È una materia puramente romanzesca, per struttura e costruzione, per il modo in cui i ricordi diventano racconto e le parole possono sfumare e prendere direzioni emotive e stilistiche a volte inaspettate; eppure, quello di Veronesi è proprio quel tipo di romanzo dall’antico sapore di saga per cui il cinema borghese di qualità ha un’accesa predilezione. Archibugi poi ha anche la giusta sensibilità, stando ai suoi film precedenti, per raccontare queste storie di rimpianti e rancori che preferiscono incancrenirsi dentro i personaggi piuttosto che emergere. La somma degli elementi, però, è decisamente più bassa del totale, perché la mano di chi quegli elementi deve amalgamarli non ci pare ferma come dovrebbe, anzi piuttosto timorosa di fronte a un racconto narrativamente ambizioso e a una produzione del genere.



Archibugi sembra non controllare mai il tono del film, scivola quando dovrebbe puntare sull’emotività, è goffa quando invece le si richiede un’apertura più solare, gli episodi e i salti danno al film un ritmo ripetitivo che mal si sposa con la varietà di situazioni proposte dal copione.

Il colibrì ambisce – come molte, troppe altre opere contemporanee, sia scritte che messe in scena con cinema e tv – a raccontare squarci del nostro Paese attraverso le storie personali, solo che non riesce mai a guardare oltre il cerchio opprimente dei suoi personaggi, delle loro storie minute, dei loro contesti rassicuranti e mai davvero in crisi.

Un’opera educata e, appunto, borghese, ma che di quella borghesia non fa mai la chiave di lettura di un Paese, semmai diventa il rifugio sicuro di un cinema pigro.

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