“Ci troviamo davanti non a un virus derivato da un patogeno naturale, ma a un virus artificiale, elaborato e rilasciato dal Wuhan Institute of Virology, un laboratorio di massima sicurezza che è posto sotto il controllo del Partito comunista cinese”. In una recente intervista al quotidiano La Verità la virologa cinese Li-Meng Yan, prima firmataria del Rapporto Yan sul coronavirus che oggi vive sotto protezione degli Usa, è tornata ad accusare la Cina di aver creato “un virus letale al fine di diffonderlo senza poter risalire agli autori”. La Yan cita tre indizi: il genoma del Sars-Cov-2 che non esiste in natura; la regione del virus che caratterizza l’infezione denominata Rbm assomiglia molto a quella del Sars-Cov-1; in una proteina chiamata Spike esiste un tipo di taglio per la furina che manca in tutti gli altri coronavirus. “Nessuno dice la verità: il governo cinese, l’Oms, il mondo scientifico”, aggiunge la Yan, che ha annunciato l’imminente pubblicazione di un secondo paper, ancora più circostanziato del primo. L’ipotesi che il Sars-Cov-2 sia nato e fuoruscito dal laboratorio di Wuhan è sempre stata finora fermamente respinta, ma davvero sono solo “stupidaggini travestite da scienza” come sostengono i suoi detrattori? Oppure l’ipotesi della Yan non è del tutto campata per aria? Ne abbiamo parlato con Giorgio Palù, virologo dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia.
Secondo la virologa cinese Li-Meng Yan “ci troviamo davanti non a un virus derivato da un patogeno naturale ma a un virus artificiale, elaborato e rilasciato dal Wuhan institute of virology”. Lei che idea si è fatto?
La mia idea, che viene sviluppata in un libro in uscita a gennaio e in alcuni lavori in press o sottomessi a riviste scientifiche scritti con un gruppo internazionale di virologi, matematici e statistici, è che non possiamo dire con certezza se il Sars-CoV-2 sia naturale o artificiale, cioè modificato in qualche maniera dall’uomo. E ciò vale anche per altri virus pandemici di origine zoonotica come quelli influenzali, che contengono geni di virus dell’anatra, del maiale e dell’uomo, di cui non sappiamo ancora definire con precisione da dove sia originato il ceppo che per primo ha infettato l’uomo e si è diffuso poi da uomo a uomo.
Perché entrambe le ipotesi restano sul tappeto?
Perché sarà difficile arrivare a una conclusione certa per le ragioni sovraesposte e oltre a ciò perché i cinesi sono reticenti e non collaborativi; dicono di non disporre più del virus originario e non mettono a disposizione i cosiddetti registri di laboratorio che ci permettono di risalire ai genomi dei vari virus di pipistrello (Bat CoV) coltivati e sequenziati nel laboratorio di Wuhan.
Quindi anche l’ipotesi che sia un artefatto di laboratorio non va del tutto scartata a priori?
Nonostante il lavoro pubblicato da Kristian Andersen su Nature Medicine ad aprile 2020, in cui si sostiene che se il virus fosse artificiale si riconoscerebbe una “firma” nell’introduzione di nucleotidi estranei, contro l’ipotesi che sia un virus naturale ci stanno almeno tre unicità strutturali della proteina S dell’involucro virale che conta 1.285 aminoacidi.
Partiamo dalla prima.
Il Sars-CoV-2 è sì identico per il 96% al betacoronavirus del pipistrello RaTG13, però si diversifica almeno per tre importanti regioni sulla proteina Spike (S) che lega il recettore cellulare, e che in tutti i virus, compreso quello dell’influenza, è il primo determinante della patogenicità, cioè della capacità di un virus di provocare la malattia. La proteina S, nella sua porzione N-terminale, quella che lega i glicani delle membrane cellulari, ha una struttura piatta, esposta e non incavata, caratteristica unica di questo virus, che non si ritrova in altri coronavirus né rinovirus né virus influenzali. La particella virale potrebbe così essere aggredita dalla risposta immunitaria dell’ospite, fatto questo che depone contro una strategia evolutiva di tropismo/adattamento in un ospite intermedio.
La seconda evidenza?
La sub-unità S1 di Sars-CoV-2, nel sito che lega con affinità elevatissima il recettore umano Ace-2, contiene alcune sequenze amminoacidiche uniche (tra gli amminoacidi 450 e 510) estranee a RaTG13 che non sembrano essere sottoposte a pressione selettiva, ma acquisite in un unico momento.
Che cosa significa?
Il virus, dopo aver infettato quasi 35 milioni di persone, ha mantenuto inalterate queste sequenze, il che significa che sono sequenze assolutamente funzionali a infettare la specie umana da subito. Ed è difficile che questo sia avvenuto per meccanismo evolutivo. I coronavirus che già conosciamo, come quelli del raffreddore o della Sars (2002) e della Mers (2012), ci hanno insegnato che l’adattamento all’uomo avviene dopo ricombinazione tra un coronavirus murino o del pipistrello e un coronavirus endogeno di un ospite intermedio. Ma ancora questo ospite intermedio non è stato identificato. Quindi, se si trattasse di un virus naturale dovremmo supporre che ci sia stato un passaggio dal pipistrello all’uomo in una fase molto precedente, ma non abbiamo trovato tracce di questo passaggio né esiste un virus del pipistrello che abbia queste modifiche.
La terza e ultima evidenza che può suffragare l’ipotesi di un virus uscito da un laboratorio?
Esiste un’altra sequenza unica in Sars-CoV-2 localizzata tra la sub-unità S1 e S2 della proteina Spike; si tratta dell’inserzione di 5-6 aminoacidi, tra cui tre arginine (aminoacidi basici) che costituiscono un motivo riconosciuto da una proteasi simile alla furina presente sulle membrane delle cellule umane. Questa sequenza di inserzione non si trova nel virus RaTG13 del pipistrello né in nessuno dei betacoronavirus del pipistrello del lignaggio di RaTG13. Ciò conferisce a Sars-CoV-2 un’altra proprietà che è unica: quella che la sua proteina S possa essere separata proteoliticamente nelle sue due subunità, consentendo alla subunità S2 che ha attività fusogenica, di espletare al meglio questa funzione e favorendo al massimo l’ingresso del virus nelle cellule di svariati tessuti del nostro corpo. Il sito dove è avvenuta questa inserzione non è un sito di ricombinazione, ciò che depone ancora una volta per un evento unico che non abbisogna del coinvolgimento di un ospite intermedio. Il pangolino, originariamente chiamato in causa, non ha infatti un virus con questa caratteristica sequenza.
Quindi la ricombinazione è una specie di fusione tra segmenti di due genomi di virus diversi?
Certamente ed è un fenomeno che in natura avviene frequentemente nei coronavirus, grazie al fatto che hanno sequenze intergeniche conservate tra virus appartenenti a specie animali diverse. Ribadisco che la porzione genica tra S1 e S2 non è solitamente sito di ricombinazione e anche questa inserzione è un evento unico che non si è mai modificato e che rende questo virus assolutamente specifico per le cellule umane. Si tenga, poi, conto che il Sars-CoV-2, deriva sì dal virus RaTG13 del pipistrello (96% di omologia genomica), ma non è tuttavia più in grado di riconoscere il recettore del pipistrello, e quindi di infettarlo. Insomma, è un virus che sembra “umanizzato” sin dall’origine. Non solo: il pipistrello che ospita RaTG13 si chiama zampa di cavallo (horse shoe) e si trova solo in una caverna della Cina meridionale, ma non certo a Wuhan. E nei dintorni di quella caverna non c’è alcun essere umano che abbia anticorpi contro questo virus. Quindi il passaggio diretto dal pipistrello all’uomo sembra molto difficile.
Secondo lei, il virus artificiale è uscito dal laboratorio di Wuhan accidentalmente o no?
Mi rifiuto di credere, se pure sia successo, che sia stato un fatto intenzionale, anche perché Wuhan era finanziato da un consorzio internazionale.
Che cosa c’entra il laboratorio di Wuhan?
Sappiamo benissimo che a Wuhan da oltre dieci anni si coltivano diversi coronavirus del pipistrello, di cui però oggi non abbiamo più inventario o possibilità di accesso. Quando si coltiva per lungo tempo un virus su cellule umane o quando lo si passa ripetutamente su animali da esperimento sensibili all’infezione, quali il furetto o il visone, il virus subisce delle mutazioni che possono includere anche inserzioni di amminoacidi polibasici, fenomeno ben noto ai virologi che lavorano con i virus dell’influenza. Quindi si tratta di un fenomeno che può verificarsi in un laboratorio e può comportare l’acquisizione per il virus di una nuova funzione (Gain of Function/GoF) senza coinvolgere manipolazioni di ingegneria genetica, tipo genetica inversa, biologia sintetica o mutagenesi sito-direzionata.
Ma a tutt’oggi quali sono, secondo lei, i punti fermi di questa vicenda del Sars-CoV-2?
Finora le cose certe sono: uno, che il virus è cinese; due, è uscito da Wuhan; tre, a Wuhan c’è un laboratorio BSLA (di massima sicurezza) che da 10 anni lavora sui virus del pipistrello; quattro, questo virus, sulla base di migliaia di sequenze genomiche depositate che ci danno una specie di orologio biologico di quando ha iniziato a diffondersi da uomo a uomo e ad avere mutazioni, circolava almeno da settembre 2019; quinto, i cinesi sono stati zitti per almeno quattro mesi sulla circolazione a Wuhan e dintorni del virus così come nel 2002 erano stati zitti per sei mesi sul virus della Sars.
Li-Meng Yan ha detto che presto uscirà un suo nuovo paper. Potrebbe portare nuove evidenze a sostegno della tesi che il Sars-Cov-2 sia stato creato in laboratorio? Su quali punti ancora oscuri?
Sì, può ovviamente portare nuove evidenze, ma tutto ciò che sarà pubblicato dovrà essere verificato dalla comunità scientifica e poi va detto che, alla fine, scoprire l’origine del virus non è problema di rilevanza biologica che attenga all’efficacia di un vaccino o di un farmaco; interessa piuttosto capire cosa manchi a un virus animale per fare il salto di specie all’uomo, quindi è materia di virologia evoluzionistica. Stanno comunque uscendo lavori (Sirotkin&Sirotkin, BioEssays 2020), (Seyran et al, Journal of Medical Virology in press, gruppo di ricerca a cui partecipo anch’io), che adombrano la possibilità che Sars-CoV-2 sia un virus sfuggito dal laboratorio, come ahimè avvenuto in passato per altri agenti altamente patogeni in laboratori di tutto il mondo.
Perché scienziati e Oms hanno finora negato, con forza e senza ammettere repliche, l’ipotesi che il virus fosse artificiale?
È una posizione che mi lascia un po’ sorpreso. La scienza dovrebbe essere aperta a tutte le possibilità, soprattutto considerando che altri virus come H5N1 sono stati già modificati geneticamente per verificare le funzioni geniche che rendevano un virus aviario capace di infettare l’uomo e diffondersi da uomo a uomo (R. Fouchier et al, Science 2011; Y. Kawaoka et al, Nature 2011). Ho letto attentamente il lavoro di Nature Medicine in cui si afferma con forza che Sars-CoV-2 non può essere un virus artificiale, ma a chi legge con attenzione, quell’articolo non esclude la possibilità che alcune modificazioni genetiche di Sars-CoV-2 siano state causate da ripetuti passaggi in coltura, come già avvenuto in passato per H1N1. Molti degli scienziati cui lei fa accenno evidentemente si dimenticano tappe importanti della storia della virologia.
In che senso?
Il primo virus modificato di cui abbiamo la certezza risale alla fine degli anni 90, quando una commissione d’inchiesta appurò che il virus H1N1, riemerso dopo che aveva smesso di circolare nel 1957, era stato modificato in laboratorio probabilmente a seguito di un programma di sviluppo di vaccini ed era sfuggito da un laboratorio sovietico.
E l’Oms?
È un’organizzazione che esclude ancora oggi Taiwan tra i circa 200 Paesi aderenti, è ormai in mano alla Cina, il cui direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, voluto da Pechino, è un biologo ignoto alla comunità scientifica ossequioso ai voleri cinesi. A parte alcune commissioni presiedute da scienziati occidentali di vaglia, in questa pandemia l’Oms ha detto tutto e il contrario di tutto con raccomandazioni a volta destituite di fondamento scientifico. In questo momento ci è poco utile: noi potremmo far ricorso per valutazioni epidemiologiche e linee guida all’Ecdc di Stoccolma e all’Agenzia europea del farmaco di Amsterdam (Ema) che come l’Fda americana sono enti regolatori e di ricerca e controllo molto più seri dell’Oms, in larga parte costituita da burocrati che agiscono su mandato e per conto dei loro Paesi.
Il fatto che sia un virus naturale o artificiale può fare la differenza in termini virologici ed epidemiologici?
Cambia poco che sia naturale o artificiale, a far la differenza è se un virus è più virulento o meno per l’uomo. Quindi i parametri più importanti con cui si misura la patogenicità di un virus sono la morbosità, cioè quante persone infettate vengono ricoverate in reparti medici o in rianimazione, e la letalità, che non si possono confondere col numero di casi incidenti. Più un virus è letale e più si estingue: ricordiamo i virus Ebola o Hendra e Nipah che avevano una mortalità del 65%, oppure la stessa influenza aviaria, letale al 60%: non si sono diffusi nell’uomo perché in quei pochi salti di specie che faceva, il virus, che è un parassita obbligato, uccideva il suo ospite e quindi si estingueva.
Questo coronavirus invece?
Ha una letalità, in base agli studi di sieroprevalenza, tra lo 0,3 e lo 0,6%. Ma con questa relativamente bassa letalità – ben inferiore a quella dei suoi parenti più stretti, cioè della Sars, che era al 10%, e della Mers, al 36% – questo virus, anche se fosse artificiale, non è destinato a estinguere il genere umano. È destinato a circolare per anni, forse per generazioni e ce lo ritroveremo come i virus pandemici dell’influenza, che ogni anno riemergano con andamento stagionale. Ma si adattano progressivamente all’uomo perché la loro finalità replicativa è quella di persistere nell’organismo che è diventato il loro serbatoio naturale.
(Marco Biscella)