Il Mezzogiorno sta all’Italia come l’Italia sta alla Germania. Anche nel campo del credito, dove la crisi accresce le differenze tra i bisogni di finanziamento percepiti dalle piccole imprese e le risposte in termini di soddisfazione che queste stesse ricevono dalle banche. Colpa della crisi, certo, ma anche di certe politiche troppo condizionate da prescrizioni e veti di Bruxelles. A scriverlo sono Luca Giordani (Consob) e Antonio Lopes (L’Orientale di Napoli) sulla Rivista Economica della Svimez diretta da Riccardo Padovani per i tipi del Mulino. Ancora una volta emerge come gli anni che vanno dal 2008 al 2014 segnano uno spartiacque molto forte tra il prima e il dopo in Europa, con il dopo che premia i paesi centrali a scapito di quelli periferici.
E chi è periferia della periferia, come il Sud in Italia, se la vede ancora peggio anche “in termini di disponibilità, qualità e costo del credito”, con conseguenze negative sul mondo della produzione e dunque anche dell’occupazione. E, quel che è peggio in termini di concorrenza, all’irrigidimento dei vincoli che si registra da noi corrisponde un allentamento in Germania che può così allungare il passo.
L’Italia arranca e il Mezzogiorno dietro. Perfino gli effetti espansivi del Quantitative easing, utili a stabilizzare e calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico, sul fronte dell’attività bancaria generano conseguenze non desiderate come il restringimento delle erogazioni dovuto alla bassa profittabilità che induce a premiare le attività finanziarie a discapito di quelle creditizie. Non solo. Benché molto più basse in termini assoluti (42,5 miliardi di euro su un totale di 200), le sofferenze bancarie delle imprese manifatturiere pesano per oltre il 33% al Sud contro il 17% rilevato al Centro-Nord, con il risultato di abbassare la disponibilità a prestare soldi soprattutto delle grandi banche che si stanno progressivamente ritraendo a vantaggio di quelle piccole.
Non meraviglia che il presidente della Campania Vincenzo De Luca, di fronte al crollo dei posti di lavoro nelle regioni meridionali, abbia avvertito il bisogno di chiedere al governo l’assunzione di 200mila giovani nei diversi ranghi della Pubblica amministrazione per raggiungere quell’obiettivo occupazionale e di tranquillità sociale che il mercato non riesce a cogliere.
Le proposte della Svimez per ovviare a una situazione che nei fatti impedisce al numeroso e variegato mondo delle imprese meridionali di poter stare in piedi e cercare di competere sono quattro e tutte comportano un maggiore impegno della parte pubblica che non può limitarsi a fare da arbitro quando le condizioni sono tali da richiedere un ruolo da giocatore.
S’invoca dunque un intervento più diretto dello Stato nel risanamento delle banche in difficoltà limitando il ricorso al bail-in, un trasferimento di parte dei guadagni della Sga alla Fondazione Banco di Napoli perché possa partecipare attivamente al Fondo Atlante, un potenziamento dei Confidi, un intervento di Cassa depositi e prestiti per promuovere più strumenti di finanza innovativa.
Sulla necessità di guardare con maggiore attenzione alle opportunità offerte da soggetti non bancari insiste il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, che invita le imprese, soprattutto quelle sottocapitalizzate del Mezzogiorno, a tentare di crescere senza debito, aprendo il capitale a soggetti esterni che possano rinforzare il patrimonio e ampliare le competenze aziendali. Non a caso il numero uno degli imprenditori è dal tempo della sua relazione d’insediamento che considera il progetto Elite di Borsa italiana un’ottima palestra per quelle realtà sane che potrebbero e dunque dovrebbero fare il salto dimensionale e di qualità senza il quale non si raggiungono le dimensioni minime e la struttura organizzativa per stare sul mercato.
Naturalmente non basta a colmare un gap produttivo – il Mezzogiorno ha un terzo della popolazione, ma partecipa alla costruzione del Pil solo per un quarto – che si ripercuote sui livelli occupazionali e costringe il territorio in una dimensione di molto inferiore alle sue celebrate potenzialità, come dimostra la perdita costante e rilevante delle sue migliori energie.
Alcune Regioni, Campania in testa, hanno accettato di concentrare le proprie risorse sugli incentivi messi in campo dal governo centrale evitando di disperderle in mille rivoli di dubbia destinazione. Così è stato, per esempio, sul Jobs Act che è stato sempre sostenuto al 100% il che spiega la particolare reattività dell’apparato industriale meridionale. Una misura che ha mostrato di funzionare così bene da aver indotto gli amministratori e gli imprenditori locali a richiederla a gran voce e il premier Renzi a promettere di conservarla intatta anche per tutto il 2017. L’idea di convergere verso un’unica direzione di politica industriale, dai territori al livello centrale, comincia a dare i propri frutti.
C’è poi la partita dei fondi europei, da spendere bene e tutti, che dovrebbero essere aggiuntivi e non sostitutivi di quelli ordinari se davvero si vuole facciano la differenza. Anche in questo caso si potrebbe e dovrebbe fare di più e meglio e tuttavia il patto di stabilità interno spesso impedisce di fornire la dotazione necessaria ad attivare il cofinanziamento.
La risalita del Mezzogiorno dal buco nero nel quale la crisi l’ha fatto ulteriormente sprofondare non sarà facile, né veloce. Ma se si sarà capaci di ordinare e coordinare le varie azioni che si cominciano a individuare chiedendo e ottenendo comportamenti responsabili dai molti attori chiamati a collaborare si potrà edificare un futuro diverso, smettendo l’abitudine di limitarsi a sognare.