Sì o No, i problemi che restano sul tavolo della politica sono gli stessi. Diverso potrebbe essere il modo di affrontarli; ma neanche più di tanto perché con l’Europa, piaccia o non piaccia, la libertà di movimento dei governi nazionali è molto limitata. È più una questione di “chi” debba fare le cose che di “che cosa fare”. Bisticcio di parole a parte, da qui non si scappa.
L’eccitazione sugli strumenti sta prendendo il sopravvento sui fini. Bisticciamo da così tanto tempo che corriamo il rischio di dimenticare il perché. Resta solo il sordo risentimento che anima le fazioni in campo, pronte a contrastarsi su tutto anche quando la ragione consiglierebbe di cooperare. Gli esperti direbbero che abbiamo perso la vision e navighiamo a vista. La tattica ha preso il posto della strategia. Ed evitiamo così di assumere le decisioni necessarie a mettere in sicurezza il Paese, che deve vedersela con una concorrenza internazionale fintamente preoccupata della crisi italiana, mentre studia come approfittare del sabotaggio interno che mette fuori gioco il competitore più temibile. Un incredibile caso di suicidio collettivo.
Confindustria, che qualcuno vorrebbe colpevolizzare per la decisione di schierarsi a viso aperto a favore delle riforme legate al referendum, rivendica con orgoglio la posizione assunta perché conosce bene il fardello che i produttori devono portarsi addosso in casa e in giro per il mondo e si rammarica di non poter esprimere l’enorme potenzialità nascosta nel Paese. L’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa dopo la Germania (ma ne è consapevole solo un italiano su tre) e potrebbe certamente ambire a essere la prima se potesse disporre delle condizioni dei colleghi tedeschi. Combattiamo con l’handicap eppure restiamo in piedi. Nel Mezzogiorno il fenomeno si presenta al quadrato. Possibile continuare così?
La questione nazionale, dunque, è una questione industriale. Se risolviamo la seconda mettiamo a posto anche la prima. Non c’è altro modo per favorire una sana occupazione che creare posti di lavoro produttivi e non c’è altro modo di creare posti di lavoro (produttivi) che moltiplicare il numero delle imprese da rendere progressivamente più forti e più grandi. Industriali e sindacati sembrano averlo capito e non a caso proprio in questi giorni si sono incontrati per firmare un inedito Patto per la Fabbrica che dovrebbe cambiare la qualità delle relazioni trasformando la loro naturale contrapposizione da vincolo in opportunità. All’indomani del voto referendario, gli attori dell’economia reale battono un colpo di portata storica.
Della stessa pasta è l’accordo che Confindustria si appresta a firmare con Borsa Italiana per rinforzare il progetto Elite (vetrina di aziende appetibili per finanziatori interni ed esteri) con l’obiettivo di far lievitare il numero delle compagnie coinvolte dalle attuali duecento ad almeno mille. Se ciascuna iniziativa dovesse attirare 5 milioni ecco arrivare 5 miliardi per la crescita.
Insomma, alchimie costituzionali, leggi elettorali e combinazioni di potere a parte, il Paese ha mille energie da mettere in campo per evitare il fallimento sul quale in molti improvvidamente scommettono. Chiunque riuscirà a intestarsi l’onore e l’onere del governo dovrà tenerne conto per conquistare sul campo la legittimazione a rappresentarlo.