Il Mezzogiorno riprende a muoversi. Ed è una buona notizia. Molto lentamente. Ed è una notizia cattiva. La caduta degli investimenti e del conseguente livello dell’occupazione è infatti così profonda a partire dal primo anno della crisi, il 2007, che la consolazione di cominciare a riconquistare il terreno perduto è troppo magra. Così magra che la società non riesce ad apprezzarla e dà più peso all’informazione, che sente sulla pelle per le tante esperienze personali e familiari, dell’aumento della povertà che secondo l’ultimo rapporto del Centro studi di Confindustria tocca al Sud 4,6 milioni di persone: il 157% in più rispetto a otto anni fa.



Tornare al livello preesistente appare un cammino lungo e difficile. Eppure anche in quel caso non avremmo che recuperato una situazione di sofferenza. Altri dati confermano che la situazione è allarmante: sempre più gente rinuncia a curarsi e aumenta il numero dei giovani che decidono di non continuare gli studi. Il 2017 si presenta così un anno assai difficile da affrontare. Un anno di svolta potremmo dire se non lo avessimo già detto un’infinità di altre volte sempre confidando in una svolta che puntualmente manca. Colpa delle circostanze, certo, ma molto di più della mancanza o carenza di politiche e pratiche adatte alla crescita.



Ricette miracolose non esistono. Ed è illusorio pensare che quello che finora non ha funzionato cominci a farlo adesso all’improvviso solo perché di riscatto meridionale si torna a parlare con insistenza e il neonato governo, che tra l’altro rischia di morire in fasce, ha in Claudio De Vincenti un ministro dedicato e finanche competente. Nonostante le celebrazioni cui di tanto in tanto assistiamo questo non è un territorio per imprese. Troppi vincoli, troppi carichi, troppa diffidenza limitano e scoraggiano gli investimenti che sono l’unico antidoto alla decrescita che qualcuno vorrebbe perfino felice mentre invece è il nemico da combattere con ogni mezzo.



L’impresa, questa macchina complessa e bellissima che fonde tanti fattori in un progetto competitivo, è guardata ancora con troppo sospetto per essere messa al centro delle attenzioni come dovrebbe e non ottiene quel riconoscimento che merita per la carica di soluzioni che è in grado di produrre al servizio di una comunità. Eppure è l’unico motore di sviluppo esistente, l’unico in grado di generare quei posti di lavoro che gli anziani vedono svanire e i giovani vanno a cercare altrove nel mondo non per formarsi e magari rientrare con un bel bagaglio di esperienze – come sarebbe auspicabile -, ma per fuggire da un luogo arido che non fornisce alimento.

Se vogliamo uscire dal baratro nel quale siamo caduti, se davvero vogliamo rialzarci e farcela con le nostre forze scambiando alla pari capitale finanziario e umano con gli altri paesi che con noi e come noi competono non dobbiamo fare altro che prendere consapevolezza che dalla fabbrica si riparte e tutto il resto ruota intorno.

Sotto questo punto di vista fa ben sperare l’intesa che esiste tra il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia e il confermato ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda sul progetto di ammodernamento del Paese che passa attraverso il nuovo modo di pensare e produrre conosciuto con il nome di Industria 4.0. Sempre Calenda, questa volta in accordo con l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, ha firmato dieci contratti di sviluppo di cui nove al Sud (cinque solo in Campania) con una dote complessiva di 300 milioni, mentre il collega Graziano Delrio battezzava dopo 52 anni la finalmente compiuta Salerno-Reggio Calabria.

Segnali che fanno ben sperare, frutto della buona volontà di imprenditori e amministratori che spingono il proprio impegno oltre il limite dell’ordinario. Gli uomini capaci e gli strumenti a loro disposizione potranno fare molto, ma non tutto se il Paese intero non capisce che il suo futuro è nell’industria che saprà meritarsi.