Si è parlato di credito alle imprese nel convegno organizzato a Matera da Confindustria Basilicata e il caso ha voluto che un paio di giorni prima il Centro Studi di viale dell’Astronomia avesse scritto sul bollettino mensile dedicato alla congiuntura del Paese che i prestiti si sono ulteriormente ridotti (-16 miliardi da fine 2015), le sofferenze restano ampie (142 miliardi), i rischi si mantengono alti. Insomma, nonostante l’abbondante cascata di liquidità versata dal banchiere centrale europeo agli istituti italiani per il mezzo del Quantitative easing, sono contate e ancora poche le gocce che affluiscono al mondo dell’economia reale e alle famiglie, che infatti lamentano una scarsa considerazione e soffrono.

Certo, non ci può essere più moneta per tentare di salvare il non salvabile. Sarebbe uno spreco. Ma che non ci sia nemmeno per accompagnare il rilancio di chi faticosamente lavora per restare dignitosamente sul mercato non aiuta a venir fuori dalla crisi. Affidarsi a crudi parametri e formule astratte, secondo principi costruiti per altre economie e imposti alla nostra, serve solo a togliere responsabilità al decisore con la conseguenza di assottigliare le opportunità di sviluppo.

Una volta di più il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia invoca diversi criteri di valutazione che tengano conto della qualità dell’imprenditore, della sua visione di futuro, dei suoi progetti. Il che implica uno sforzo di comprensione ormai scomparso nei santuari del credito, che infatti e non a caso mostrano crepe da tutte le parti.

Un problema serio se al Sud, come ricorda l’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri, solo il 28 per cento delle domande è preso in considerazione e appena il 4 per cento con piena soddisfazione. Percentuali da brivido statistico: o quasi tutti gli imprenditori meridionali non sanno fare il proprio mestiere e misurare le proprie necessità o a essere inadeguato è chi deve giudicare il loro merito.

Certo, per crescere occorre imparare a usare tutte le leve disponibili, come aprire il capitale a soci industriali o a fondi d’investimento. Si può anche scegliere di restare piccoli e crescere lo stesso attraverso consorzi e contratti di rete. Si può aderire al progetto Elite di Borsa Italiana o puntare alla quotazione in Borsa. Questione di mentalità e in definitiva di maturità. Ma del credito ordinario non si può fare a meno. Mentre sembra proprio che le banche, paralizzate dai troppi errori del passato, molte volte legati alla gestione del rapporto più ancora che all’erogazione (come il caso Banco di Napoli dimostra ampiamente), di tutto si vogliano occupare tranne che di quello per cui sono nate. Non stupisce che cali anche la domanda, perché a furia di chiedere e non ottenere si finisce con l’autolimitarsi.

La questione industriale – che per Confindustria è la vera questione nazionale di cui ci si dovrebbe occupare a tempo pieno anche per conservare all’Italia il secondo posto in Europa nella produzione manifatturiera – è troppo seria e delicata per non richiedere una piena attenzione e il migliore funzionamento di una strumentazione che dovrebbe essere rivolta alla costruzione di ricchezza e posti di lavoro. Esattamente quello che manca e tutti vorrebbero.