Tre circostanze inducono ad affrontare all’inizio del nuovo anno il tema assai spinoso della diseguaglianza: il tradizionale discorso in Tv del Capo dello Stato, la morte dell’economista inglese Tony Atkinson e la circolazione di un libro controcorrente scritto dal giornalista liberale Nicola Porro per La nave di Teseo. Nei primi due casi – che riguardano le tesi di Atkinson e del presidente Mattarella – la disuguaglianza è un male da combattere. Meglio, è uno dei mali da combattere con maggiore vigore per avere una società più giusta; il vice direttore del Giornale e conduttore televisivo è di tutt’altro avviso.
Il pensatore britannico è anche il padre intellettuale di Thomas Piketty, economista francese diventato una star per aver scritto uno dei libri più citati (ma non si sa quanto letti) degli ultimi anni come “Il capitale del XXI secolo”, che dell’avversione alle disuguaglianze ha fatto il suo scalpitante cavallo di battaglia. Parliamo qui di disuguaglianza nei risultati, della forbice sempre più larga tra chi ha poco e chi ha molto. Anzi, molto molto: così tanto da risultare disgustoso e quindi criticabile e criticato da chi sostiene che la loro condizione privilegiata – meritata o meno – sia di per sé una minaccia per la società.
Da un punto di vista economico, Porro si sforza di dimostrare, chiamando a raccolta una serie di testimoni non-di-sinistra, che la tesi non regge. Chi ha tanto non toglie nulla a chi è poco. E sarebbe davvero triste una comunità che nel rispetto del principio dell’uguaglianza fosse composta solo di poveri. La disuguaglianza, al contrario, dovrebbe essere la molla del miglioramento individuale e collettivo. Un invito all’emulazione, a far meglio e di più, a ingegnarsi per raggiungere le vette degli altri. Invece di essere ammirati, gli uomini di successo sono aspramente criticati.
Il presupposto sta in un’orrenda cultura dell’alibi che scarica su chi sta meglio la frustrazione di chi sta peggio. Chi non raggiunge gli obiettivi desiderati non si limita a fare come la volpe con l’uva voltando le spalle all’oggetto del desiderio, ma deve anche demolire chi riesce nell’intento. Dalle nostre parti questo atteggiamento si chiama invidia ed è una delle peggiori attitudini dell’animo umano, particolarmente sviluppata in Italia e così diffusa nel Mezzogiorno da rendere sospetta qualsiasi forma di successo. Chi arriva è certamente un ladro, un colluso, un poco di buono.
Cosicché una comunità formata da una moltitudine di soggetti egualmente sfigati è da preferire a un consesso dove le diversità si vedono e si possono apprezzare. La gara è verso il basso: se io non posso arricchirmi non devi farlo neanche tu. Chi nonostante tutto si afferma rappresenta un pericolo.
Così si distoglie l’attenzione dal vero nemico che è la povertà, questa sì da contrastare con ogni mezzo. E non c’è niente di più salutare per un povero che poter beneficiare delle risorse sottratte ai ricchi con le manovre distributive che tutti i governi hanno imparato a praticare con poco ritegno.
La questione della disuguaglianza, dunque, non ha certo natura economica, ma sociale e politica, perché si prendono più applausi e voti gridando all’untore che richiamando tutti alle proprie responsabilità garantendo la vera uguaglianza che conta, relativa alle condizioni di partenza e alle regole del gioco.