Slitta l’Italia, anzi scivola su un piano inclinato. Il disavanzo pubblico slitterà di altri 8 miliardi e trascinerà con sé il debito dello Stato che a fine anno dovrebbe arrivare al 155,7% del prodotto lordo. Le percentuali non dicono tutto. L’ultimo dato assoluto risale al 20 settembre: il debito ammontava a 2.582 miliardi euro, il 31 gennaio era di 2.443 miliardi, quindi la pandemia ha aggiunto 139 miliardi di euro che a fine anno saranno 200 miliardi presi a prestito sul mercato. Nel frattempo si è diffusa l’idea che ci si indebiti gratis, tanto la Bce stampa moneta. È vero, i tassi d’interesse sono molto bassi, ma per capire la sostenibilità del debito c’è anche un altro parametro fondamentale sfavorevole all’Italia: la crescita.
Nel medio e lungo periodo il rapporto da affiancare al debito sul Pil è il costo medio del debito pubblico rapportato al tasso di crescita monetaria del prodotto interno lordo. Se sale oltre quota uno, i problemi si fanno seri, cioè vuol dire che un Paese non è in grado da produrre abbastanza reddito per pagare gli interessi. Questo rapporto era dello 0,88 nel 2017, dell’1,07 nel 2018, segno della turbolenza politica alimentata anche dalla corsa indiscriminata a mettere le mani sui fondi attesi dall’Unione europea, ed è sceso l’anno scorso a 0,93. Ma potrebbe risalire se gli annunci della politica economica sull’utilizzo dei nuovi debiti non fossero collegati alle riforme.
Indebitarsi in questa fase è inevitabile, ma per fare cosa? Per distribuire una ricchezza che non c’è o per contribuire ad aumentare quella ricchezza? È il dilemma di fondo che il Governo italiano ha evitato di affrontare ed è la questione chiave dietro il piano europeo di ripresa. L’Italia, il Paese che riceverà di più, ha una responsabilità particolare, fino al punto che il successo del Next Generation Eu dipende in larga parte dalla credibilità del piano italiano. È quel che sottolinea il paper scritto da Marco Buti, capo di gabinetto del commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, e dall’economista Marcello Messori, Direttore della Luiss School of European Political Economy.
Su come mobilitare le risorse europee ci sono posizioni diverse. Spagna e Portogallo pensano di utilizzare subito i trasferimenti a fondo perduto per sostenere gli investimenti, rinviando i prestiti a tempi migliori. L’Italia invece vorrebbe coprire con i prestiti larga parte delle spese che sarebbero state comunque effettuate riservando i trasferimenti alle riforme e agli investimenti. La soluzione ottimale sarebbe concentrare ogni risorsa aggiuntiva su progetti innovativi, ma il paper propone un compromesso: “La spesa pubblica preesistente finanziata con i prestiti va strettamente collegata al piano di riforma”.
Buti e Messori fanno due esempi significativi: il reddito di cittadinanza e i sostegni all’industria. Per il primo il Governo ha stanziato altri 4 miliardi di euro che rischiano di essere sprecati com’è già successo per gli stanziamenti precedenti. Si potrebbero invece utilizzare per riformare quello strumento oggi inefficace trasformandolo nell’incentivo a una vera politica attiva del lavoro. La Legge di bilancio rifinanzia Industria 4.0. Sembra una buona occasione per sostituire con i prestiti europei un capitolo di spesa pubblica già previsto. Ma il Recovery fund dura fino al 2026 e non ha senso togliere dopo tre anni gli incentivi a imprese che hanno avviato un processo di ristrutturazione di lungo periodo. Tutt’altra storia se le risorse servono a finanziare i servizi dei quali hanno bisogno le aziende. È un criterio che vale anche per la sanità (non basta assumere personale e ampliare gli ospedali, deve essere digitalizzata e riorganizzata), l’intera Pubblica amministrazione, le infrastrutture (compresa la rete delle telecomunicazioni), per non parlare del fisco. Vengono scritti in bilancio due miliardi di euro per una riforma solo annunciata, senza un’idea su come andrà rivista l’imposta sui redditi e quale rapporto andrà istituito con le altre imposte; quei due miliardi finiranno dunque in altri bonus inutili e dispendiosi nello stesso tempo.
Gestire insieme emergenza e riforme è l’unico modo di evitare la logica dei due tempi e non sprecare le risorse. Sapendo che dall’Ue non arriverà di più e che l’Italia dovrà “definire un quadro economico e fiscale in grado di garantire la sostenibilità di lungo termine del rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo”, scrivono Buti e Messori. Altro che cancellare i debiti.
La proposta lanciata da David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, s’è rivelata una gaffe politica. Christine Lagarde, Presidente della Bce, ha detto che sarebbe contraria ai trattati, ma soprattutto sarebbe una bomba atomica sulle banche e le istituzioni finanziarie che detengono i titoli di stato, capace di scatenare un’altra tempesta come quella del 2008. Diverso è discutere, nel medio periodo, su come consolidare parte dei debiti pubblici nella zona euro, attraverso un accordo con le istituzioni europee. Circolano già molte proposte che possono essere riprese in considerazione, ma l’essenziale è non cercare scorciatoie.
L’Italia deve dimostrare di essere capace di affrontare i suoi problemi strutturali. A questo guarderanno i mercati, è quel che si aspetta la Commissione europea, ma soprattutto è ciò di cui hanno bisogno gli italiani.