1986. Alabama. L’appena diciottenne Ronda Morrison viene barbaramente assassinata nella cittadina di Monroeville. A un anno di distanza la polizia arresta Walter McMillian, un onesto cittadino di colore, accusato ingiustamente, a seguito di una serie di prove contraffatte e sommarie, e condannato a morte. A occuparsi del caso, in difesa di Walter, sarà il giovane Stevenson, laureato in legge ad Harvard, giunto in Alabama carico di buoni ideali, per supportare centinaia di giovani uomini di colore, accusati, condannati e giustiziati per colpevole errore da un sistema vergognosamente e dichiaratamente razzista.
Agli americani e agli italiani, evidentemente, piace il consueto. O almeno è quello che credono le poco coraggiose menti del marketing cinematografico. Il diritto di opporsi è un po’ il solito film “dimostrativo”, ben realizzato (e in questo caso anche molto ben interpretato), sul razzismo contro i neri d’America. In breve, ingiustizia, vergogna, processo e prevedibile happy end. Basato su una storia di vera ingiustizia.
Il diritto di opporsi è il solito titolo, confezionato alla perfezione da pavidi titolisti del cinema italiano, goffamente ispirato a recenti titoli di successo. Il diritto di opporsi è la trasposizione cinematografica del racconto dello stesso protagonista, Bryan Stevenson, che ne ha anche firmato il libro. È lui l’eroe di questa storia di giustizia sociale, che ci racconta con passione e un po’ di malcelata autocelebrazione, che la regia di Cretton riprende pedissequamente.
Nel film Stevenson è interpretato da un efficace ed espressivo Michael B. Jordan (visto in Creed), che fa coppia con un altrettanto convincente Jamie Foxx, in bilico nel braccio della morte. La storia, vera e verosimile, si colloca nel cassetto dell’assurdo, nel reame dell’indicibile, dove la malvagità umana, unita a profonda stupidità, gretto pregiudizio e ignobile codardia, provoca violenza e ingiustizia.
Siamo nel mondo della speranza negata, in uno Stato schiavista, l’Alabama, razzista senza pudore né vergogna, quello stesso Stato che, negli anni Cinquanta, regalò il coraggio rivoltoso di Rosa Parks.
Non sia fatta di ogni erba un fascio, ma certo è che, giunti ormai al centesimo film sui soprusi a danno dei neri, la possibilità dell’ingiustizia è molto più di una probabilità. La mostruosa compagnia di visi pallidi, nei tardi anni ’80, confeziona il mostro per saziare l’opinione pubblica, silenziando la paura del diverso e dell’ignoto.
Non si rimane indifferenti di fronte alla vergogna dell’uomo contro l’uomo, del malefico e meticoloso progetto squadrista che azzanna il futuro dei neri, il cui abito più di moda, in Alabama, è quello a strisce nere.
Il nobile sogno di Stevenson è voglia di cambiamento. È manna dal cielo per un popolo distrutto da decenni di dolore, rassegnato alla sopravvivenza, umiliato nel cuore, confinato nel buio della paura. Un popolo con un flebile segnale di vita che sventola, attraverso le arringhe del giovane e motivato avvocato, giustizia e verità come antidoto di povertà.
Il buon Cretton ci porta negli oliati meccanismi del male, nelle aule della vergogna, tra le menti offuscate del pregiudizio. Ci sbatte nelle putride celle di prigioni monocolore, portandoci per mano nel maleodorante braccio della morte, dove sentiamo l’odore di bruciato del violento e orribile tribunale della fine.
Nella semplicità banale del racconto, nella consuetudine della storia vera, sempre nuova e sempre uguale, chi guarda si lascia sopraffare dalle emozioni, quelle opposte di rabbia e felicità, di odio e compassione, imbrogliate astutamente dal metodico e certosino mestiere hollywoodiano dello spaccacuori. Ma, a ben vedere, è solo un attimo inevitabile, di un film un po’ troppo costruito. È solo l’attimo della compassione. Just mercy.