Portatore di un immaginario spesso fuori dal tempo, Michel Ocelot è uno dei grandi maestri del cinema d’animazione europeo, ponte fra le culture arcaiche e tradizionali e la tecnologia più moderne, come se il centro della sua arte fosse quello di rendere vivi e in movimenti i più bei libri illustrati che la storia ci abbia dato, portando al contempo alla luce importanti riflessioni sulla teoria e la pratica del racconto.



Il suo nuovo film, Il faraone, il selvaggio e la principessa, presentato alla Festa del Cinema di Roma in Alice nella città, segue proprio il filone dei racconti orali, attraverso tre storie indipendenti, ambientate in differenti epoche e luoghi, legate solo dalla presenza di una narratrice e di un uditorio che le suggerisce gli elementi del racconto, e che vedono come protagonisti i tre personaggi del titolo.



Ocelot, come sempre sceneggiatore unico, spazia dall’antico Egitto al XVIII secolo, passando per il Medioevo francese, e sembra voler mostrare l’evoluzione dell’uomo attraverso la natura sempre più complessa delle narrazioni, le vecchie mitologie che approdano all’epica, la guerra come costante sfondo dell’umanità che però si scioglie nella bellezza dell’immagine, del colore, sconfitta dalla fantasia e quindi dall’arte.

Il faraone, il selvaggio e la principessa non regala sorprese particolari a chi conosce il regista, il suo stile tanto bizantino quanto barocco in cui l’immagine bidimensionale si arricchisce di costanti dettagli oppure si spegne nel gioco delle ombre e delle figurine intagliate che fanno emergere per contrasto la potenza colore. È un modo di fare animazione che riporta il racconto e il disegno a una primitività che più che infantile sembra far parte della natura stessa del gioco umano; è per questo che i film di questo maestro non smettono mai di lasciare a occhi e bocca aperti.



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