Il 25% del Pil italiano è sommerso, c’è ma non è destinato al bene comune, crea ricchezza per i singoli ma non utilità generale. E’ un problema, un serio scoglio che abbiamo il dovere di superare insieme. Penso che l’approccio a questa piaga civile, debba partire da ritrovate ragioni dell’unità nazionale. Senza nessuna demagogia, né pelosi richiami all’ambivalente periodo risorgimentale, è necessario partire dalle ragioni di fondo della nazione, prima ancora di inventare misure fiscali utili alla lotta del sommerso.

Vale ancora la pena essere italiani? Ha senso contribuire al bene comune, accrescere la capacità redistributiva dello Stato, verso i singoli, le famiglie, la comunità e il no-profit? Penso che per l’approccio corretto al problema della devastante crescita del nero in Italia (375 miliardi, pari al 25% del Pil, almeno 50 mila lavoratori di cui il 50% italiani) si debbano innanzitutto ridiscutere (non astrattamente e nemmeno storicamente, ma riferendosi al contesto attuale) le ragioni dell’unità, della responsabilità e dell’opportunità dell’essere italiani.

La politica deve fare la sua parte, consapevole delle delusioni e delle illusioni che ha prodotto in questi decenni, certa della distanza che divide i bisogni del popolo e dei troppi discorsi e impegni del Palazzo. Va da sé che la massima di ogni buon ministro delle Finanze, solitamente i più odiati nella storia dell’umanità, è la stessa del buon governatore romano: i cittadini non pagheranno tributi troppo alti che mettano a repentaglio la loro prosperità futura, il loro lavoro e la loro famiglia.

Tuttavia, l’evasione dipende in gran parte dalla volontà di trattenere il massimo del proprio denaro con sé. Certo, anche per ragioni di scarsità o difficoltà economiche, ma anche per sfiducia verso l’Amministrazione pubblica e lo Stato nel suo complesso. Ciascuno di noi ha verificato come, generalmente, non sempre ogni euro affidato allo Stato si trasformi in servizi efficienti per il cittadino, talvolta venga ingurgitato dalla burocrazia, altre produca sprechi, altre ancora servizi tanto inefficienti da costringere il cittadino a pagarne di tasca sua altri.

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Se aggiungiamo a questa verifica quotidiana l’eccessivo peso delle tasse, la sfiducia complessiva verso la ripresa, un sistema fiscale che moltiplica i controlli ma non introduce il conflitto di interesse, ci avviciniamo alle ragioni del nostro record mondiale, del 25% di Pil in nero. Dunque, a partire dalla crisi educativa generalizzata che pervade la nostra bella penisola, si dovrebbe porre attenzione particolare ai messaggi che promuovono la responsabilità comune, il bene comune.

 

Il professionista X, l’artigiano Y, il cittadino Z, la famiglia V non solo devono ritrovare le ragioni d’essere buoni cittadini che pagano le tasse e rispettano la legge, ma devono sperimentare che è più conveniente per loro agire secondo le virtù civili; e nello stesso tempo, le Amministrazioni pubbliche e il no-profit potranno rispondere meglio ai bisogni della povera gente.

 

In questo orizzonte – smascheriamo le nostre illusioni – è necessario tornare all’idea di persona (uomo e comunità) e abbandonare l’idea di individualismo sfrenato (uomo solo al centro del mondo). C’è, dunque, una battaglia culturale, altrettanto urgente di quella della Guardia di Finanza, che deve essere iniziata e senza la quale, mutuando da Washington, «non basterebbero agenti ad ogni angolo delle strade». Se non torniamo a darci le mani, molto più facile nell’ora della crisi che nei bagordi del consumismo, non usciremo dal buco nero.