Alla fine, come promesso già nella scorsa primavera, il Referendum sulla distribuzione dei migranti tra i Paesi della Unione e in particolare su quelli destinati in Ungheria si farà, il presidente Orban ha annunciato che il prossimo 2 ottobre tutto il Paese sarà chiamato a esprimersi sull’argomento. “Volete che l’Unione Europea sia autorizzata a decidere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento?”. Un quesito semplice che rischia di rinfocolare le polemiche mai sopite da parte di alcuni partiti politici europei e da parte di alcune potenti lobbies, contro il governo Orban.
Il Governo e le forze parlamentari che sostengono Orban dal 2011 ad oggi hanno ottenuto ampie maggioranze oltre i due terzi o molto vicine alla soglia necessaria per le riforme costituzionali. Il popolo dunque ad ogni legittima valutazione nelle urne ha voluto premiare il leader del Partito Fidesz e il suo operato. Eppure proprio quel leader e quella maggioranza hanno voluto in più occasioni, vedi il voto sulla riforma costituzionale, chiamare il popolo alle urne per avere conferme e prendere atto della volontà dei propri cittadini. Un esercizio che rischia di venire troppo vituperato da parte di élite a cui la volontà popolare è indigesta.
Angelo Panebianco ha messo in guardia dalla “democrazia diretta”, descrivendola come non essere “la migliore risposta a problemi complessi… sui quali è richiesto un minimo di conoscenza”. Ebbene la decisione e il testo sul quale i cittadini ungheresi dovranno esprimersi è non solo ben chiaro ma altrettanto semplice: “L’Ungheria deve subire decisioni europee (in materia di immigrazione) senza poterle valutare attraverso il proprio Parlamento nazionale”?
Non ci sono pericoli di fraintendimenti, né di strumentalizzazioni dei messaggi referendari da parte dei cittadini ungheresi, che hanno ascoltato lo scorso anno decine di pronunciamenti da parte dei leader politici europei contro le decisioni di Orban (muro, filo spinato, controlli alle frontiere etc.).
Dunque, sia dal punto di vista della democrazia rappresentativa, sia nel rispetto della democrazia diretta, il referendum ungherese è “politicamente corretto”. L’annuncio del referendum è arrivato a pochi giorni dall’inizio della Presidenza Slovacca dell’Unione Europea, e il premier Fico (socialista) è stato fortemente attaccato dal proprio partito perché fermo sostenitore di politiche restrittive nei confronti dei migranti (specialmente musulmani) e dei diritti LGBT.
Insieme a Fico e alla Slovacchia, l’intero Gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) ha idee comuni su Europa, rispetto a identità storico-culturali nazionali, competenze nazionali e comunitarie, immigrazione etc. La decisione dell’incontro a tre (Germania, Francia, Italia) sul dopo Brexit ha provocato le reazioni del Gruppo e dei quattro Paesi che hanno giustamente e fermamente protestato.
Nessuna protesta né rumors invece da parte dei fondatori dell’Unione nei confronti del Governo francese che, zitto zitto, non solo continua a prorogare lo “stato d’emergenza”, ma ha addirittura approvato una robusta riforma del mercato del lavoro senza voto parlamentare.
Alla faccia della democrazia, diretta o indiretta che sia, siamo di fronte ad un atto autoritario che in troppi ormai paragonano alle decisioni prese a Bruxelles.
Si vogliono evitare altre Brexit? Si lasci spazio alla democrazia, dentro e fuori dai partiti. Il Referendum ungherese sarà dunque un ennesimo atto d’amore verso l’Europa e di rispetto del Trattato costitutivo (nel quale sin dal Preambolo si afferma il desiderio di “intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettandone la storia, la loro cultura e le loro tradizioni”) e non di guerra alla Ue.