Non so se davvero nel nostro mondo “niente sarà più come prima”, come ci continuano a ripetere (sinceramente spero che si sbaglino), ma di certo sarà così nel mondo delle serie tv, dato che in poco più di due anni quasi tutte le più popolari e longeve ci hanno lasciato.

A parte l’inarrivabile Doctor Who (36 stagioni e 855 episodi), che sembra capace di rigenerarsi all’infinito, proprio come il suo protagonista, sopravvivono ormai solo Squadra Speciale Cobra 11 (che verosimilmente durerà finché al mondo ci saranno auto da sfasciare) e NCIS, che non solo è giunta alla diciottesima stagione, ma è anche riuscita nella “mission impossible” di sopravvivere alla dipartita di quasi tutti i suoi personaggi più amati (anche grazie alla loro disponibilità a comparire di tanto in tanto come guest star, il che ha permesso di continuare a raccontare le loro storie per diverse stagioni).



Sopravvivere, però, non è vivere e inoltre sembra difficile che NCIS possa farcela ancora per molto, dopo che ha lasciato anche l’immenso Mark Harmond (l’agente speciale Leroy Jethro Gibbs), che nelle ultime stagioni l’aveva tenuta in piedi praticamente da solo.

Questo ci offre l’opportunità di riflettere sul particolare rapporto che esiste tra le serie televisive e l’elemento più importante di ogni narrazione: il finale. In genere, infatti, senza un finale all’altezza nessuna storia, per quanto buona possa essere, potrà mai assurgere al rango di indimenticabile, mentre un finale deludente può rovinare anche la più geniale delle trame, così come, all’inverso, un grande finale può riscattare, almeno in parte, una storia mediocre. Ora, le serie tv che hanno chiuso hanno avuto finali molto diversi tra loro, ma sempre in qualche modo coerenti con la propria natura. Ben poche, però sono riuscite a offrircene uno davvero memorabile. Eppure, questo non ha inciso più di tanto sul loro valore complessivo.



La più “esagerata” di tutte (in tutti i sensi), Il Trono di Spade, ha chiuso – appunto – esagerando, anche se stavolta nel male, con un finale inguardabile che ha causato il più catastrofico crollo di consensi della storia della televisione (da un gradimento fra il 93% e il 97% per le prime sei stagioni a uno di appena il 36% per l’ultima su Rotten Tomatoes, il più celebre aggregatore di recensioni online).

X-Files, serie cult degli anni Novanta ripresa vent’anni dopo per due dimenticabilissime stagioni, è apparsa imbolsita e invecchiata come i suoi protagonisti, portando alle estreme conseguenze la progressiva perdita di logica della trama, che aveva già afflitto le ultime stagioni della serie originale senza riuscire però a intaccarne il fascino magnetico, come invece è purtroppo accaduto stavolta.



Vikings, al tempo stesso violenta e struggente, piena di appassionato amore per la vita e di profonde domande sul suo senso destinate perlopiù a rimanere senza risposta, ha chiuso con un interminabile, malinconico tramonto durato ben tre stagioni, facendo morire uno ad uno quasi tutti i suoi protagonisti. O, più esattamente, facendoli diventare coscienti di essere già tutti morti senza saperlo alla fine della terza stagione, insieme alla titanica figura di Ragnarr Lothbrok.

La geniale e scoppiettante Elementary ha invece avuto un finale pieno di energia e ironia, anche qui in perfetto accordo con il carattere dei suoi personaggi, capaci di non annoiare mai senza andare mai sopra le righe. Proprio per questo, però, non è stato un grande finale. Anzi, non è stato nemmeno veramente un finale, ma piuttosto un nuovo inizio, che in linea di principio permetterebbe (anche se è molto improbabile che ciò accada) di riprendere la serie in qualsiasi momento, come se non si fosse mai interrotta.

Infine, alcune serie, come per esempio Agents of SHIELD, Hawaii Five-O e Criminal Minds, hanno preferito rinunciare del tutto a un vero finale e hanno optato, sulla scia di Numb3rs, per una sorta di “riunione di famiglia”, in cui i protagonisti salutano sé stessi e il loro pubblico. È una soluzione “catenacciara” che evidentemente non funziona sempre, ma è una buona opzione per chi sa che il segno l’ha già lasciato e non vuole rischiare di rovinare tutto proprio sul filo di lana e, soprattutto, per chi è riuscito a diventare davvero “di famiglia” con il proprio pubblico (anche se forse c’è anche una motivazione più profonda, di cui parlerò in un prossimo articolo).

Da cosa nasce questa difficoltà di trovare un buon finale che affligge anche le serie migliori? E perché, d’altra parte, questo non le danneggia più di tanto, come accade invece nei film e negli altri tipi di narrazione?

Una prima risposta è che se realizzare un grande finale è sempre difficile, a maggior ragione lo è in una serie di lunga durata. Anzitutto, infatti, va considerato il rischio, sempre incombente, della cancellazione, che non dipende solo dagli ascolti, ma da diversi fattori su cui gli autori non hanno alcun controllo (dissapori interni al cast, rinuncia da parte di attori chiave, difficoltà economiche o cambi di strategie da parte della casa produttrice, ecc.), il che fa sì che in genere la storia originaria sia pensata per giungere in tempi relativamente brevi a una conclusione che possa risultare soddisfacente.

Concludere, però, significa inevitabilmente chiudere, se non tutto, almeno qualcosa (se c’è un cattivo dev’essere sconfitto, se c’è un mistero dev’essere svelato, se ci sono due innamorati devono mettersi insieme, ecc.). Perciò, se la serie ha successo bisogna inventarsi un prolungamento che però, per forza di cose, dovrà fare a meno di alcuni dei fattori che avevano contribuito al suo successo. Inoltre, più si va avanti, più cresce la complessità della trama e più diventa quindi difficile ricondurre tutti gli elementi a una sintesi soddisfacente. Infine, è fisiologico che col tempo si fatichi sempre di più ad avere nuove idee e, d’altro canto, si tenda a compiacere i gusti del pubblico.

All’inverso, bisogna considerare che le serie televisive di successo hanno un punto a loro favore su cui nessun altro tipo di narrazione può contare (a parte i fumetti caratterizzati da “continuity” interna): la durata. Essa, infatti, fa sì che si crei un forte legame emotivo con il pubblico, che col tempo diventa così solido da poter sopportare anche l’assenza di una conclusione eclatante.

Inoltre, la presenza (ormai praticamente d’obbligo) di diverse sottotrame, molte delle quali si concludono prima di quella principale (in parte per esigenze narrative intrinseche, in parte per l’uscita di scena di alcuni attori), fornisce al pubblico un certo numero di “sottofinali” che, se ben congegnati, riescono a dare un senso di compiutezza che si propaga alla narrazione principale. Ne segue che è assai più importante evitare un finale deludente che faccia infuriare i fan, come è successo col Trono di spade, che trovarne uno che li mandi in visibilio.

Eppure, un grande finale, per quanto non strettamente indispensabile, lascia il segno anche nelle serie tv, rendendo indimenticabili quelle davvero buone e a volte perfino quelle che altrimenti sarebbero rimaste niente più che piacevoli.

Un esempio del primo tipo è Narcos, dedicata all’incredibile vicenda del più celebre narcotrafficante della storia, Pablo Escobar (la terza stagione, dedicata al Cartello di Cali, anch’essa molto buona, ma non dello stesso livello, pur mantenendo il nome e diversi personaggi è di fatto una nuova serie). Qui in realtà non c’era molto da inventare, perché la storia vera, finale compreso, era già di per sé, pur nella sua tragicità, più epica, più surreale e più piena di colpi di scena di qualsiasi cosa immaginata a tavolino. Bisognava però riuscire a raccontarla nel modo giusto, senza scadere nella retorica o nella spettacolarizzazione a buon mercato: gli autori ci sono riusciti in pieno e ne è risultato un autentico capolavoro.

Un esempio del secondo tipo è Revenge, versione moderna e al femminile del Conte di Montecristo. Ben congegnata, con personaggi accattivanti e glamour, si presenta come una telenovela che nasconde in realtà un’anima feroce, ma ha avuto anche momenti di stanchezza (soprattutto nella terza stagione) e alcune illogicità che non le avrebbero permesso di sollevarsi a un livello più alto di quello di un gradevole intrattenimento. Se non fosse che nel finale tutti gli elementi aggiunti quando si era deciso il prolungamento della serie, compreso quelli che inizialmente erano apparsi un po’ forzati, si saldano come per magia con quelli della trama originaria a comporre uno dei finali più perfetti che si siano mai visti in televisione.

La scena conclusiva, con la vendicatrice Amanda Clarke (una straordinaria Emily Van Camp) che solca sulla barca del fidanzato il mare lucente (che nella sigla appariva sempre oscuro, come simbolo della vendetta), finalmente in pace con sé stessa e col mondo, se non fosse per il ricordo (che lei crede un sogno, ma probabilmente è realtà) che il cuore che le è stato trapiantato è quello della sua nemica mortale, è davvero indimenticabile e riscatta in un colpo solo tutti i difetti della serie.

Ma la serie che più di tutte ha chiuso col botto (e che botto!) è stata quella da cui meno ce lo si aspettava: la scanzonata Supernatural, la cui stagione finale ha introdotto, pur senza cambiarla esteriormente e probabilmente senza neppure un’intenzione consapevole, un livello più profondo e, soprattutto, attualissimo. Ne parleremo in un prossimo articolo.

(1- continua)

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