La borsa o la vita! Questa frase sarà venuta in mente a molti in questi giorni di crollo delle Borse e della finanza in generale. La sensazione di essere stati rapinati incombe su chi alla Borsa aveva affidato i risparmi, magari su indicazione della propria banca, direttamente o indirettamente attraverso le Sgr della banca stessa. Né la sensazione è diversa per chi ha firmato contratti con blasonate assicurazioni e ha ricevuto una lettera in cui si comunica che, dato il fallimento della Lehman Brothers, probabilmente ci rimetterà almeno una parte del capitale investito “nella polizza garantita”.
Già, perché almeno la Borsa la garanzia non l’ha mai promessa, su niente. Le Borse sono sempre state fondate su un rischio calcolato, e la differenza con il gioco d’azzardo dovrebbe essere proprio questa: in Borsa non si dovrebbe scommettere, ma cercare di prevedere cosa succederà in futuro a un titolo e assumere così un rischio calcolato. Non a caso si dice speculare in Borsa, e speculare vuol dire osservare, meditare attentamente, far progetti, cioè guardare lontano, ed è lo stesso termine che si usa per la filosofia.
Con speculazione, però, si indica anche un pensiero senza fondamento solido; altrettanto in Borsa, dove la speculazione può diventare una semplice scommessa, senza analisi e pensiero: infatti, si dice anche giocare in Borsa.
Le crisi in Borsa di solito seguono, e spesso anticipano, le crisi dell’economia, perché quelle quotate sono aziende reali (lo sono se le autorità di Borsa funzionano bene) e la capitalizzazione sul mercato borsistico è un indicatore, non una misura, del loro valore. Proprio la differenza tra valore in Borsa e valore reale attuale, ma soprattutto futuro, attribuito alla società spinge ad investire nella società stessa, cosi come crescita di valore e di redditività prevista nel tempo è alla base di un investimento a lungo termine.
Perché questo sproloquio filogico-economico? Perché non serve a nessuno contrabbandare come assoluta l’equazione Borsa=bisca, come non serve equiparare la finanza alla pirateria, ma occorre separare il grano dal loglio, eliminare cioè i pirati (ce ne sono moltissimi in gessato e non solo in Usa), riportando la finanza alla sua funzione essenziale per l’economia, e permettere alla Borsa di tornare a essere un mercato, rischioso ma pur sempre un mercato, e non un tavolo da gioco. Cominciando magari a riflettere sul fatto che, se un certo tipo di finanza e di banche si è comportato come se fosse nel Far West, è anche perché gli sceriffi hanno chiuso un occhio, o tutti e due, o si sono addirittura uniti alle gang.
Quello che sta succedendo in questi giorni nelle Borse inizia a somigliare a panic selling, cioè a una valanga di vendite senza puntuali motivazioni, ma dovute a un crollo di fiducia e alla paura di veder azzerato il capitale investito. Il passo successivo in questo percorso verso il baratro, e già c’è chi lo vede vicino a partire da Berlusconi e dagli altri capi di Stato, è la corsa a ritirare i propri risparmi dalle banche.
In questi casi si innesta un circolo vizioso, perché ogni intervento in profondità, se da una parte tende a riparare una parte almeno del guasto, dall’altra finisce per segnalare a tutti la gravità della situazione, togliendo la terra sotto i piedi anche ai più ottimisti. Le crisi finanziarie si propagano non solo per l’oggettiva interconnessione tra i vari sistemi, ma per una sorta di infezione virale, come un’epidemia.
La crisi in Borsa di Unicredit, che si sospetta in parte creata da speculazione (nel senso di scommessa contro), si è estesa a tutto il sistema bancario, senza grandi distinzioni tra i vari tipi di banca e le varie situazioni particolari. L’aumento di capitale di Unicredit rischia di essere interpretato innanzitutto come l’ammissione della crisi, finora pervicacemente negata, piuttosto che la cura alla crisi.
Il vero punto critico è il sistema bancario, le cui contraddizioni stanno scoppiando e nei cui confronti la mancanza di attenzione per i clienti “non forti” aveva già creato un clima di insofferenza, soprattutto dopo i vari casi di bond farlocchi e di “strumenti” finanziari che si sono rivelati altrettanto taroccati. Si sa che la moneta cattiva scaccia la buona, quindi le banche che non meriterebbero questo giudizio sono messe anch’esse nel mucchio.
Paradossalmente, la Borsa sembrerebbe in una crisi meno strutturale. Gli investitori seri, quelli per cui speculare vuol dire guardare lontano e basandosi sui valori fondamentali delle aziende, già ora hanno di fronte a loro molte occasioni d’oro. La riprova sono i delisting, cioè il ritiro dal mercato della società da parte del socio di maggioranza a prezzi stracciati rispetto a una valutazione reale dell’azienda.
Chi rimane ancora buggerato è il piccolo risparmiatore, che soffre una perdita secca senza avere neppure più la possibilità di attendere che i corsi riprendano e che, magari, ha comprato i titoli un paio di anni fa aderendo a un’OPV a prezzi molto più elevati. Il guadagno rimane solo al socio di maggioranza che, si può essere sicuri, si affretterà a rimettere la società sul mercato quando i prezzi saranno risaliti. In altri termini, un gioco in cui vince solo il banco, ma qui stranamente nessuno parla di speculazione.
In tutta questa brutta vicenda vi è infatti un grande sconfitto: il risparmio, e quindi i risparmiatori, il cui ritorno al materasso rischia di far fare un balzo all’indietro a tutto il sistema economico. Infatti, anche i titoli di Stato cominciano a non essere più visti come esenti da rischio, dato il peso enorme assunto dal debito pubblico, non solo italiano. Ma soldi sotto il materasso, consumi ridotti e paura di investire sul futuro sono un cocktail micidiale per ogni economia.
La sfiducia è il peggior nemico dell’economia, ma lo è anche della società e la maggior minaccia alla vita personale di ciascuno, perché fiducia e speranza sono collegate. Per non perdere anche la speranza, tra la Borsa e la vita, scegliamo allora ancora una volta la vita.