Durante un recente dibattito televisivo sugli attentati di Mumbay, Rocco Buttiglione ha messo in discussione l’immagine corrente di Al Qaeda come una sorta di multinazionale del terrorismo, capace di organizzare centralmente una serie di attentati, o azioni militari come quella indiana, in situazioni lontane e molto diverse tra loro. La sua tesi è che Al Qaeda sia diventato un marchio utilizzato da diverse organizzazioni islamiche, con vantaggi per entrambi i “partner” che ottengono più ampia e costante esposizione mediatica.
Personalmente concordo con la tesi di Buttiglione: Bin Laden e i suoi hanno già largamente dimostrato di saper usare i moderni mezzi di comunicazione e sarebbe del tutto credibile e strategicamente coerente l’impiego di Al Qaeda come “brand” da concedere in “franchising” anche ad altri terroristi.
Oltre la maggiore efficienza mediatica, questa operazione di globalizzazione dell’immagine di Al Qaeda porterebbe un altro vantaggio, cioè stornare l’attenzione dalle situazioni locali, rendendone più difficile l’interpretazione e quindi le contromisure. È quanto sta succedendo per Mumbay, dove l’interpretazione kadeista tende a evidenziare la caccia agli anglosassoni (come interpretare il racconto dell’inglese che afferma di essersi salvato dichiarandosi italiano?), mentre quella localista sottolinea la situazione di tensione interna con i musulmani, i problemi con il Pakistan per il Kashmir, e via dicendo.
Qualcosa di simile è successo in Italia per la mafia, con la teoria del Grande Vecchio che portò al processo contro Andreotti durato più di dieci anni. Gli sforzi della magistratura si concentrarono sulla dimostrazione del teorema Mafia – Grande Vecchio – Cupola – Andreotti – DC, appoggiato dal PCI per evidenti ragioni politiche. Ciò non vuol dire che non vi fossero, purtroppo, connessioni tra politica e mafia, ma il teorema stornò attenzione, energie e fondi dalla lotta contro le cosche operanti nel concreto sul territorio e le altre organizzazioni criminali. Approfittando del cono d’ombra creatosi, ‘ndrangheta e camorra si sono rafforzate notevolmente e non a caso che oggi si parli quasi più di camorra che di mafia.
Concentrarsi su Al Qaeda e Bin Laden può essere quindi sviante, perché il mondo del terrorismo islamico è variegato, anche se unito dal comune odio per la cultura occidentale e per quanto non considerato ortodosso all’interno del mondo islamico. Si può quindi ritenere probabile che il “contratto di franchising” contenga anche clausole di consultazione nella pianificazione delle azioni per aumentarne la terribile efficienza, una specie di riedizione del sindacale “ marciare separati per colpire uniti”.
Occorre che tra gli obiettivi di questa rete terroristica si crei un maggiore grado di collaborazione e coordinamento, perché le reazioni isolate sono condannate ad avere poco successo. È però essenziale che a questa rete antiterroristica partecipino il più possibile i governi dei paesi musulmani, senza le ambiguità di cui sono pervasi. Sotto questo aspetto, è essenziale che si faccia piazza pulita dei servizi segreti deviati pakistani, spesso accusati di collusione con i talebani e di cui si è parlato anche per gli attentati di Mumbai.
La posizione dell’Arabia Saudita, nonostante qualche cambiamento in atto, rimane ambigua: avversa ad Al Qaeda, ma sostanziale sostenitrice di varie organizzazioni terroriste, in nome del rigore wahabista, la setta estremista che legittima il potere dei sauditi sulla penisola araba.
Qui è il vero punto critico: la lotta al terrorismo islamico sarà molto difficile fino a che il mondo musulmano non porrà un netto rifiuto nei suoi confronti. Non bastano le blande condanne e tanto meno la neutralità.
Torna qui un parallelo con la stagione italiana delle Brigate Rosse. La lotta fu molto difficile finché il terrorismo rosso e nero trovò in molti ambienti politici, culturali o sindacali il proprio brodo di cultura, “l’acqua in cui nuota il pesce”, per dirla con Mao. Solo quando il PCI, dal definire le Brigate Rosse prima “sedicenti”, poi “ compagni che sbagliano”, passò a sconfessarle apertamente e combatterle decisamente, questa acqua fu tolta e i pesci pian piano smisero di nuotare.
Anche la gran parte del mondo musulmano che non condivide le pratiche terroriste deve fare un passo simile, deve smettere di considerare i terroristi “correligionari che sbagliano”, deve sconfessarli e combatterli apertamente. Questo dovrebbe essere un compito soprattutto del cosiddetto islam europeo, più libero da condizionamenti e che si trova ad operare in un ambiente più favorevole; tuttavia, le evidenze sono semmai di segno contrario. Certamente non aiutano certe posizioni politiche in Europa che ritengono contrarie ai processi di integrazione le richieste agli immigrati di aderire ai valori fondamentali del nostro convivere civile. Rischiando così di ributtare in braccio all’estremismo molti musulmani che invece ne vorrebbero rifuggire.