I fatti accaduti attorno alla Fiera del Libro di Torino hanno riportato alla ribalta un ritornello che potremmo tradurre così: Israel delendum est, perché opprime i palestinesi. Potremmo tuttavia aggiungere:
Cina delenda est, perché opprime tibetani e uiguri.
Russia delenda est, perché opprime i ceceni.
Turchia delenda est, perché opprime i curdi.
Ceylon delendum est, perchè opprime i tamil.
Sudan delendum est, perché opprime le popolazioni del Darfur.
Vietnam delendum est, perché opprime i montagnard, e via elencando.
Potremmo, perchè in questi, come negli altri numerosi casi citabili, chi è sotto accusa è il governo o la élite al potere, quando vicinanze ideologiche, interessi economici o letture strumentalizzate della storia non portino al silenzio su queste oppressioni o addirittura alla loro difesa. Solo per Israele si chiede la cancellazione. Perché? Le critiche all’esistenza dello Stato ebraico, peraltro, partono già dall’interno dello stesso Israele, con la contestazione da parte di una minoranza di religiosi osservanti per i quali il ritorno del popolo eletto nella Terra Promessa può essere opera solo di Dio e non degli uomini. All’altro capo, la contestazione viene da esponenti di una sinistra pacifista che vorrebbero un unico Stato in cui ebrei e arabi possano convivere, al momento purtroppo una lodevole utopia.
Anche l’atteggiamento della diaspora ebraica sembra spesso ambiguo, oscillante tra vicinanza e prese di distanza, a seconda di variabili convenienze ideologiche, politiche o economiche. Si pensi a certa intellighenzia ebrea italiana che ostenta forti inclinazioni per la sinistra, salvo manifestare periodicamente doloroso stupore per gli attacchi portati da sinistra a Israele. Stupore, perché l’antiebraismo è attribuito alla sola destra, pretendendo aprioristicamente che la sinistra ne sia immune. A sinistra, infatti, si sostiene di non nutrire alcun antisemitismo, ma solo di essere contro il sionismo, distinzione piuttosto ambigua e, per certi versi, paradossale, vista l’origine laica e socialista del sionismo. Basti pensare ai kibutzim, tuttora importanti per la società israeliana, che rappresentano una versione realmente democratica e comunitaria dei tanto esaltati, dalla sinistra, kolchoz sovietici. Così come ambigua è la vulgata che vorrebbe Israele come una esclusiva conseguenza della Shoah. La cattiva coscienza per lo sterminio nazista ha facilitato, senza dubbio, nel 1948 il voto delle Nazioni Unite in favore della nascita di Israele.
L’idea di uno Stato ebraico risale però agli ultimi decenni del 1800, resa poi organica da Theodor Hertzl, creatore del movimento sionista, il cui primo congresso risale al 1897. Un riconoscimento importante al sionismo viene nel 1917 dal governo inglese con la Dichiarazione Balfour, in cui si parla di una “ national home” in Palestina per il popolo ebreo. Anche qui vi è un paradosso, visto che dopo la guerra sarà proprio l’amministrazione inglese a ostacolare l’immigrazione ebraica in Palestina e alla base delle tragedie successive, si può anche porre la frettolosa evacuazione della Gran Bretagna dai territori sotto mandato, in conseguenza del sanguinoso terrorismo di organizzazioni ebraiche come l’Irgun o la Banda Stern. Di paradosso in paradosso, è da notare che il contestato Israele è nato, credo caso unico, da un esplicito voto dell’assemblea dell’Onu, ma lo vogliono cancellare proprio coloro che all’Onu si appellano in ogni occasione come a un tribunale supremo.
Tornando all’ambigua differenza tra sionismo e ebraismo, l’impronta sionista di Israele si è ormai quantomeno annacquata, per una serie di fatti successivi. Gli ebrei immigrati in Israele nei primi anni dopo la guerra erano i superstiti delle stragi naziste, che lasciavano alle loro spalle un’Europa distrutta e sull’orlo della guerra civile, comunque nei prodromi di quella che diventerà la Guerra Fredda. Per molti di questi ebrei la patria era quella che abbandonavano, forzatamente: la presenza ebraica nell’Europa dell’est, si pensi alla Varsavia descritta da Isaac Singer, era spesso una parte costitutiva di quelle società, nonostante i ricorrenti drammi, e la cultura yiddish era parte della cultura europea. Una struggente canzone yiddish, Es Brennt, parla della “nostra piccola città” che brucia e questa piccola città ebrea è il ghetto di Varsavia, insorto contro l’occupante nazista; i polacchi, che non mossero un dito, di lì a non molto subiranno la stessa sorte, sotto gli occhi interessati dell’Armata Rossa alle porte di Varsavia. È quanto meno da discutere la spinta della causa sionista su questa prima ondata di immigrati. Così come probabilmente poco a che fare con il sionismo hanno le masse di ebrei espulsi dai paesi arabi (e di cui nessuno parla) in cui risiedevano da secoli; anzi, questi sefarditi sono diventati spesso cittadini di serie b in una società dominata dagli ashkenaziti, gli ebrei provenienti dall’Europa centrale, appannando l’impronta socialista e democratica del primo Israele.
Occorre poi tener presente l’influenza sempre più crescente degli israeliani nati in Israele, i cosiddetti sabra, per i quali ormai quella è la patria di nascita e non più di elezione o adozione. Anche l’ultima immigrazione di massa, quella proveniente dalla scomparsa Unione Sovietica, non sembrerebbe collegata al sionismo, ma a una fuga da una patria che tale non si è dimostrata, oltre che alla ricerca di benessere economico. Non a caso, si sospetta che parte di questi immigrati non sia neppure veramente ebrea. In altri termini, il sionismo è semmai una delle concezioni, o ideologie, presenti in Israele, che si presenta come uno stato laico, di impronta decisamente occidentale, forse europea, abitato da una maggioranza di ebrei e da una minoranza di arabi, in cui convivono credenti di varie religioni, le più importanti essendo l’ebraismo, l’islamismo e il cristianesimo, e non credenti di varie confessioni, filosofiche, ideologiche, politiche. Non è di certo l’unico Stato plurinazionale e pluriconfessionale della nostra epoca, ma ancora per molti, per troppi, solo Israel delendum est.