Nei prossimi giorni terranno certamente banco commenti e analisi sui dati di crescita dell’inflazione nei 30 paesi OCSE. Torneranno quindi alla ribalta anche i dati sul crollo delle vendite al dettaglio, comunicati una decina di giorni fa dall’ISTAT e che segnalano un decremento del 2,3% ad aprile sull’anno precedente. Il dato, particolarmente rilevante per i prodotti non alimentari (3,4%), scende ad un più limitato 0,8% per gli alimentari, dato di per sé abbastanza naturale, essendo questi ultimi considerati consumi di base.
L’aumento dell’inflazione, con il conseguente minore potere di acquisto, e il pericolo di ulteriori incrementi dei tassi, quindi del costo dei mutui e prestiti, non fanno sperare nulla di buono, tenendo conto anche della continua ascesa del prezzo del petrolio.

Comprensibili, quindi, le diffuse preoccupazioni, non solo quelle ovvie delle famiglie e, sull’altro lato, degli esercenti, ma anche quelle degli industriali e, forse, anche dei politici. La parola d’ordine sembrerebbe ora: aumentate i salari e diminuite le tasse, cosicché aumenti il potere di acquisto e quindi la domanda interna, cioè i consumi degli italiani.
Giustissimo. Tuttavia, a chi scrive viene in mente l’alzata di scudi della sinistra e di parte del mondo cattolico quando, qualche anno fa, Berlusconi disse che si doveva consumare di più. Forse se avesse parlato di domanda interna, invece di consumi, non sarebbe successo niente. Il punto è che se si vuole aumentare la domanda è perché non si vuole diminuire l’offerta; altrimenti basterebbe adeguare entrambe su livelli più bassi, ma questo significherebbe crisi economica.

Dopo la scoperta che il salario non è una variabile indipendente, come pretendevano nel 1970 i leader sindacali Macario (CISL) e Lama ( CGIL), ora molti stanno forse scoprendo che anche produzione e consumi non sono variabili indipendenti. Non si può infatti chiedere di consumare meno e pretendere di produrre di più, perché produrre per il magazzino oltre un certo limite non serve. Anzi, sempre più la nostra è un’economia di servizi, dove il magazzino praticamente non esiste, e anche nella produzione industriale è ormai frequente il cosiddetto “just in time”, vale a dire tecniche di riduzione al minimo delle scorte.

Si può obiettare che i consumi sono “buoni” ed è il consumismo che è “cattivo”; ma il consumismo non è una categoria economica: è soggettiva, quando non chiaramente ideologica. Questo è il fulcro della questione: quanto in là può andare la libertà di consumare ciò e quanto si vuole? E quanto “in qua” può andare lo Stato nello stabilire ciò e quanto si deve consumare? Lo Stato etico sovietico decideva con i suoi piani quinquennali cosa produrre, e solo quello poteva essere consumato. La società permissiva e relativista occidentale tende a lasciar libero ogni consumo, comprese droghe o qualsiasi uso e abuso del proprio e dell’altrui corpo.
Dipendendo dai diversi sistemi di valori, le soluzioni al dilemma sono molteplici, ma ciò non impedisce che si possa trovare un terreno su cui cooperare ad un bene comune minimo. A questo dovrebbero essere chiamate le forze politiche, per concordare una base di consumi prioritari, da sostenere con un corretto intervento statale.

Alcuni obiettivi sono già chiari, almeno a parole: maggiore diffusione e qualità dell’educazione, sostegno alla famiglia, politica della casa e delle infrastrutture necessarie, sviluppo della ricerca, e via dicendo. Gli strumenti sono incentivi e leva fiscale, accompagnati da una reale e diffusa sussidiarietà. Non basta incidere su un indicatore globale come l’indice di pressione fiscale, perchè è importante come e dove questa pressione si esercita. Un esempio banale: non ha senso perseguitare i proprietari di yacht, se non altro per l’importanza della nostra industria nautica, ma forse è meglio dare incentivi prima per i figli, che per i cabinati. Così, non ha senso che lo Stato imponga le retribuzioni dei manager privati, ma può far sì che queste vengano decise realmente da tutti gli azionisti e stabilire regole per la loro rilevanza fiscale, soprattutto in presenza di perdite societarie (si pensi all’Alitalia).
Se lo Stato, o meglio la classe politica, la magistratura e la burocrazia che lo rappresentano, smetteranno di trattare i cittadini come sudditi da spremere o bambini da guidare perché incapaci di badare a se stessi, se cioè lo Stato dimostrerà fiducia e rispetto per i suoi cittadini, allora anche i cittadini italiani riprenderanno fiducia nel loro Stato e la discrasia tra Stato e Paese verrà colmata.