A quanto sembra, l’azione del ministro Brunetta sta avendo successo, almeno per il momento, perché non è scontata la permanenza nel corso del tempo degli attuali effetti positivi. Rimane il fatto che, forse per la prima volta, sono state messe concretamente in discussione abitudini consolidate di parte della Pubblica Amministrazione e ritenute, chissà perché, non modificabili.
Vi sono state però reazioni negative da parte di chi ritiene di fare bene il proprio lavoro e si sente colpito ingiustamente. Molte di queste lamentele sono probabilmente giustificate, essendo i veri “fannulloni” una minoranza, e sembra perciò opportuno il progettato intervento in favore dei meritevoli.
Una delle critiche più puntuali riguarda la qualità e la capacità di intervento della dirigenza e l’organizzazione del lavoro. In effetti, non è possibile addebitare ai soli “fannulloni” l’inefficienza della PA, problema ben più ampio e derivante da incrostazioni di decenni, da un’incapacità strutturale di adeguarsi ai cambiamenti della società, dalla permanenza di una concezione di Stato in cui la Pubblica Amministrazione non è al servizio del cittadino, ma di regolamenti ed esigenze interne a se stessa.
Nell’attesa di una riforma profonda della PA, la questione “fannulloni” ha significato affrontare un problema di etica, equità ed efficienza. Si potrebbe pensare che i problemi etici siano personali, e lo sono, ma il riscuotere uno stipendio a carico della collettività lavorando meno di quanto dovuto cessa di essere un fatto privato e, oltre un certo limite, diventa un comportamento truffaldino condannabile anche per via giudiziaria. Inoltre, chi non fa il proprio dovere danneggia gli altri lavoratori, ponendo quindi un problema di equità: si premia il negligente, invece di premiare chi fa il proprio dovere. Sotto questo profilo, sarebbe stato logico un intervento dei sindacati a protezione dei lavoratori, non dei “fannulloni”, anticipando quello del governo.
Un risvolto particolarmente negativo è il crearsi nella PA di un clima di rassegnazione, di «chi me lo fa fare, intanto è tutto uguale», uno degli aspetti più frustranti del lavoro negli enti pubblici e fattore rilevante di inefficienza.
Lo stesso tipo di analisi e la stessa necessità di intervento riguardano i numerosi privilegi senza giustificazione e le rendite parassitarie che affliggono il nostro paese, ostacolandone lo sviluppo. Solo un paio di esempi particolarmente significativi, se non altro perché rientrano nel concetto, ormai à la page, di “casta”.
I politici
Qui il problema dei “fannulloni”, qualora esistente, verrebbe risolto dagli elettori attraverso lo strumento del voto; tuttavia, l’attuale legge elettorale, cancellando le preferenze, ha tolto questa arma agli elettori per darla in mano ai capi dei vari partiti e correnti. Si è così aggravato il problema dei costi della politica e della loro efficienza, di cui una parte importante, se non altro per il valore di esempio, è dato dagli emolumenti dei politici.
Non si tratta semplicemente di tagliare i compensi, ma di sottrarli all’autoreferenzialità, ancorandoli a parametri oggettivi, e di certo non è tale l’agganciamento agli stipendi di magistrati, altra categoria votata a diventare “casta”.
A mo’ di esempio, per i parlamentari potrebbe essere stabilito un multiplo (10/15 volte) dello stipendio medio nazionale dei lavoratori dipendenti, legando così al reddito effettivo del popolo gli emolumenti dei suoi rappresentanti. Anche il sistema previdenziale dovrebbe essere quello vigente per tutti i cittadini, in accordo con le leggi votate dai parlamentari stessi, che continuerebbero a versare i loro contributi ai fondi di provenienza, istituendo un fondo integrativo ad hoc per i parlamentari che volessero costituirsi una pensione integrativa.
Rimborsi e diarie dovrebbero essere stabiliti secondo le regole di una sana e oculata amministrazione, senza alcun beneficio particolare per parenti e amici.
Se è vero che i nostri politici si fanno eleggere solo per spirito di servizio, credo che nelle sue linee generali questa proposta possa essere accolta con soddisfazione ed estesa a tutti i livelli elettivi.
I supermanager
Ultimamente sono tornati alla ribalta, quanto a etica ed equità, i compensi stratosferici di molti manager. Per quanto riguarda le aziende pubbliche, il governo Prodi aveva già stabilito un tetto massimo, con una decisione che ritengo giusta, soprattutto se collegata a qualche parametro oggettivo, come visto per i parlamentari. A questo stipendio base potrebbero essere collegati incentivi variabili a seconda dei risultati raggiunti, in modo da evitare eccessivi livellamenti.
Inoltre, per le aziende con rilevante partecipazione pubblica, non dovrebbero essere consentiti accordi che prevedano elevate liquidazioni anche in presenza di perdite, come avvenuto per esempio per Alitalia.
Più difficili misure di questo tipo per le imprese private, senza ledere la libertà di iniziativa e le prerogative degli azionisti. Tuttavia, il diritto societario dovrebbe prevedere, anche per questo aspetto, una maggiore tutela degli interessi degli azionisti di minoranza. Spesso gli emolumenti sono decisioni autocratiche dei consigli di amministrazione, imposte all’assemblea degli azionisti grazie agli accordi tra gli azionisti di comando, con i vari patti e intrecci più o meno palesi.
Vi è però un altro livello di intervento dello Stato che, lasciando la libertà alla società di retribuire come vuole i suoi dipendenti, può porre dei livelli massimi per i carichi derivanti alla collettività da queste decisioni. Oltre un certo limite, retribuzioni, incentivi, liquidazioni non dovrebbero essere più detraibili dal bilancio fiscale, non ottenere alcuna agevolazione impositiva e i contributi essere devoluti a un fondo di solidarietà, almeno in parte.
Infine, dovrebbe essere possibile un’azione di responsabilità verso gli amministratori, qualora la politica retributiva dei manager avesse obiettivamente danneggiato l’azienda, come nel caso di forti incentivi o liquidazioni in presenza di perdite di bilancio.
Si tratta solo di indicazioni da approfondire, ma che consentirebbero a mio parere di far coesistere il rispetto della libertà di mercato con il principio di equità.