Si dice che Gianfranco Fini sia piuttosto irritato per le uscite combinate di Alemanno e La Russa, preoccupato che possano causare una battuta d’arresto nel processo di allontanamento di AN da ogni passato fascista. Credo che si possa escludere ogni intento di politica interna, tanto meno concordato, nelle dichiarazioni del sindaco di Roma e del ministro della Difesa e la faccenda potrebbe quindi essere liquidata come un’ingenua imprudenza di due politici, anche se navigati.

L’incidente è però avvenuto attorno ad una data che significò molto per la mia generazione, ma che forse non dice molto oggi: l’8 settembre. Eppure, quel giorno del 1943 è stata una delle date più perniciose per l’Italia, che trasformò in guerra civile la guerra sciagurata in cui la dittatura fascista aveva trascinato il paese, al fianco di una dittatura luciferina come quella nazista. Per di più, la decisione di rovesciare il fronte fu presa da parte del re e dei vertici militari con una criminale ambiguità, che rese tragica una scelta in sé giusta, per quanto tardiva. E, come spesso accade nel nostro paese, il tragico si mescolò con il grottesco e il farsesco, rendendo ancor più pesante il costo in distruzioni materiali e, soprattutto, in vite umane.

Tralasciando i libri di storia, basterebbe andare a rivedere “Tutti a casa”, girato nel 1960 da Luigi Comencini, regista di sinistra nato proprio a Salò. Ognuno si trovò a dover scegliere, spesso in condizioni drammatiche, da che parte stare e, altrettanto spesso, non fu una scelta libera. In molti casi fu una scelta che divise famiglie e amicizie, che mise uno contro l’altro persone che mai lo avrebbero voluto, che fece compiere azioni che non si sarebbe mai pensato di poter fare, azioni eroiche e azioni bestiali. Ciò non dovrebbe stupire, se solo si avesse la lealtà di chiamare le cose con il loro nome, perché tutto ciò è tragicamente congenito ad una guerra civile.

Mi colpisce perciò in modo estremamente negativo la dimenticanza strumentale di cosa fu in realtà quel tremendo periodo e la divisione manichea in buoni e cattivi cui si è assistito in questi giorni, manicheismo che sa molto di cattiva coscienza. Leggendo attentamente le dichiarazioni dei due politici, mi pare evidente l’assenza di ogni intenzione assolutoria nei confronti del fascismo e ha perciò ragione Giampaolo Pansa quando, in un’intervista al Giornale, parla di “antifascismo ringhiante” oggi non più credibile.

Il punto è che la destra ex missina ha cercato di fare i conti con il suo passato ed è oggi guidata da gente che, ai tempi del fascismo, aveva al massimo i calzoni corti o non era ancora nata. La maggior parte dei leader della sinistra, invece, era già adulta quando continuava a sposare entusiasticamente il verbo comunista proveniente da Mosca (per la verità, non solo il verbo veniva da quelle parti) e non risulta nessuna revisione di questo atteggiamento, tanto meno sconfessione. Una parte, anzi, continua a dichiararsi comunista, anche con qualche arroganza, mentre un’altra parte vorrebbe che non si facessero domande sul suo passato, pur continuando a proclamare di “venire da lontano”. Ve n’è anche che dichiarano di non essere mai stati comunisti e bisognerebbe informarli dell’esistenza delle emeroteche.

Per tutti costoro, il mito della resistenza è intoccabile, e a ragione, perché tali devono essere i miti perché non si sgretolino. Viene ancora in mente Pansa e l’ostracismo riservato ai suoi libri su quel periodo, non solo dalla sinistra antagonista, ma anche, o forse di più, dalla sinistra ormai diventata establishment.

Per queste ragioni non mi stupiscono più che tanto le reazioni di questa parte politica e, al posto di Fini, sarei tranquillo, perché gli italiani sono al fondo un popolo serio, checché ne pensino certi intellettuali con occhi e cuore sempre e comunque rivolti oltralpe, spaventati di fronte a qualsiasi starnuto venga da Bruxelles o Strasburgo.

Mi sorprendono invece le reazioni degli esponenti delle Comunità ebraiche, comprensibili peraltro visto che molti di costoro militano a sinistra. Nel definire “male assoluto” le leggi razziali, Alemanno mi pare abbia sottolineato proprio la differenza radicale nei confronti di una “semplice“ dittatura. Di quella fascista soffrirono gli italiani in genere, di quelle leggi soffrirono solo gli ebrei e gli altri da quelle leggi colpiti, leggi che ci accomunarono a quell’altro “male assoluto” rappresentato dalla lucida follia nazista. E, per inciso, gli amici ebrei di sinistra farebbero bene a ricordarsi che i loro compagni di partito tendono sovente a definire “fascisti” i loro correligionari israeliani.

Per concludere, vorrei citare Giordano Bruno Guerri che, ancora sul Giornale, riteneva inappropriato applicare la formula “male assoluto” ad un sistema politico, perché applicabile solo al Maligno, a Satana ( aggiungeva lui, per chi ci crede). Credendo nell’esistenza di Satana, non posso che concordare con Guerri e ricordare anche Hanna Arendt e il suo “La banalità del male”, scritto assistendo al processo ad Adolph Eichmann. Questa “banalità” minaccia ciascuno di noi, è lo strumento che usa quotidianamente il Maligno, e la Arendt aggiungeva che la banalità discende da un’assenza di profondità, perché “.. solo il bene ha profondità e può essere integrale”.

Fascisti, nazisti, comunisti pensavano di cercare il bene per sé e per gli altri,o almeno, per quelli che avevano deciso essere i loro “altri”, camerati o compagni che fossero: al di fuori di questi, infatti, c’erano solo “sottouomini”, “nemici del popolo”, e via dicendo ed eliminando. Senza profondità e senza radici sono finiti obbrobrio della Storia, perché solo il Bene ha profondità e può essere integrale.