Come dice un vecchio detto, “a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia”. Quando fu firmato il trattato con la Libia, scrissi un articolo in cui avanzavo qualche dubbio, condiviso credo da molti altri, sulla reale possibilità che la Libia potesse, e volesse, controllare i flussi migratori verso l’Italia, concludendo con una frase che allora poteva sembrare eccessivamente scettica: «Pacta sunt servanda, ma il punto è quanto Gheddafi abbia dimestichezza con il latino, o se per lui è parlar arabo».



Mi meraviglia perciò la sorpresa del nostro governo nello scoprire che forse la Libia non sta rispettando il trattato, perché vi erano tutte le premesse. La prima di queste è che i dittatori, e non vi è dubbio che Gheddafi lo sia, anche se riammesso nel consesso civile, hanno una concezione particolare della validità dei trattati, peraltro molto semplice: li si rispetta finché conviene. D’altra parte, fu Bismark per primo a definire i trattati “chiffon de papier” (carta straccia) e per De Gaulle invece erano come le rose e le ragazze: durano finché durano. Come si vede Gheddafi si trova in buona compagnia.



Peraltro, anche il nostro governo non è stato probabilmente del tutto trasparente: sempre della serie “ a pensar male…”, la ragione vera dell’accordo e del consistente contributo finanziario alla Libia risiede nei ritorni economici per le nostre imprese impegnate nella costruzione delle infrastrutture libiche e, soprattutto, nelle forniture di petrolio. Con il che non voglio dire che le questioni della sicurezza fossero un falso scopo, ma semplicemente che vi sono ragioni anche più consistenti per non fare, o meglio non poter fare, la voce troppo grossa con il partner libico. Che, oltre il petrolio, ha anche capitali da investire in qualche nostra importante azienda sottocapitalizzata, come risulta dalle recenti cronache.



Il punto focale è che il nostro Paese è massicciamente dipendente dalle importazioni di petrolio e gas, grazie alla inesistenza dell’energia nucleare, al sostanziale rifiuto del carbone e alla scarsa dotazione di altre fonti rinnovabili, frutti di un tartufesco ecologismo, ben distante dalla vera ecologia, e della radicata convinzione dei nostri governi che non valga la pena di dedicare tempo ed energie a una sensata politica industriale ed energetica. Il tutto condito da un esasperato localismo e relativa sindrome nimby che hanno, per esempio, ostacolato i rigassificatori, impedendo anche la semplice diversificazione dei fornitori.

La nostra politica estera rimane così costantemente sotto ricatto dei nostri fornitori di energia, siano essi la Libia, l’Algeria o la Russia, e perfino il lontano Kazachistan è in grado di condizionarci, minacciando di metter sotto scacco l’Eni. E possiamo ringraziare di avere comunque alcune imprese in grado di competere sul mercato globale, come Eni ed Enel, con punte di eccellenza tecnologica quali Saipem.

Recentemente ilsussidiario.net ha pubblicato un’interessante intervista al professor Adolf Goetzberger, fondatore del Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems, un centro di eccellenza tedesco nella ricerca sull’energia solare. Giustamente il professore tedesco si meravigliava che il nostro Paese, così soleggiato, fosse invece così indietro rispetto alla più ombreggiata Germania. È questa una delle tante incomprensibili contraddizioni che fa dell’Italia un paese “amabilmente” pazzo.

Tuttavia, “c’è del metodo in questa follia”, per dirla con Polonio, ed è per questo che nonostante tutto il Paese va avanti, ma con quali costi? E purtroppo non sempre questi costi vengono pagati solo da noi italiani, come sta accadendo per gli emigrati clandestini.