Non vi è dubbio, come ha sottolineato Lorenzo Albacete nel suo editoriale di qualche giorno fa, che la cerimonia di insediamento di Obama rimarrà impressa nella memoria degli americani e anche di molti europei, malgrado lo scetticismo tipico del Vecchio Continente che ha spesso considerato queste manifestazioni con una certa sussiegosità, dimenticando in molti casi le “oceaniche adunate” del proprio passato.

Certo è che l’avvento di Obama è stato segnato da un certo messianesimo, salutato come l’inizio di una nuova era di rigenerazione dell’immagine esterna e dell’unità interna degli Stati Uniti, entrambe frantumate dal “perfido” Bush. Altrettanto certo è che Obama è stato molto abile in campagna elettorale, presentandosi come l’uomo del cambiamento radicale, ma evitando clamorose rotture, a volte rievocando sensazioni molto “nostrane”, dalle “convergenze parallele” al “progresso senza avventure”, in una sorta di forte e pugnace “maanchismo”.

Dopo aver reso l’onore delle armi all’avversario McCain e averne ricevuto una sorta di viatico, ha riservato nella formazione del governo, pur saldamente presidiato dai suoi Chicago boys, un ruolo fondamentale all’antagonista interna, Hillary Clinton, e ha dato un segnale di continuità rilevante mantenendo il precedente responsabile in un dicastero nevralgico come la difesa.

Tutto bene quindi? Forse non del tutto. I primissimi giorni dei suoi pieni poteri rimarranno segnati da due decisioni che si pongono in forte discontinuità con la precedente Amministrazione. Il primo è l’immediato mantenimento di una chiara promessa elettorale: la chiusura di Guantanamo, accompagnata dall’ordine di eleminare ogni luogo di detenzione abusivo della Cia all’estero e dal bando totale dell’impiego della tortura, anche per fini di sicurezza nazionale, tutte misure su cui non si può che concordare.

La seconda decisione rappresenta una specie di tormentone per gli Stati Uniti e riguarda la cosiddetta Mexico City Policy, istituita da Ronald Reagan nel 1984, che imponeva alle Ong, per poter usufruire dei fondi federali, di non attuare né promuovere in altri paesi l’aborto come metodo di pianificazione familiare, salvo casi eccezionali come stupro o incesto. Questa disposizione venne annullata da Bill Clinton il 22 gennaio del 1993 e ripristinata da George W. Bush lo stesso giorno del 2001. Il 23 gennaio 2009, la Mexico City Policy è stata nuovamente abolita da Barack Obama.

Si tratta anche qui di una promessa elettorale, anche se non sottolineata nelle ultime fasi di campagna, ma che era stata oggetto di una dichiarazione congiunta con il candidato alla vicepresidenza Joe Biden il 22 gennaio 2008, trentacinquesimo anniversario della sentenza della Corte Suprema denominata Roe v. Wade, che aprì praticamente le porte all’aborto legale negli Usa. Questa decisione sta già provocando proteste da parte dei movimenti pro-life e anche la Chiesa cattolica ha espresso le proprie gravi preoccupazioni.

Diversi commentatori avevano già indicato il tema dell’aborto come uno dei principali possibili inciampi all’apparente idillio di Obama con il popolo americano, essendo il presidente stretto tra il proprio curriculum politico pro-choice e l’appoggio ottenuto su questa base dalle frange più liberal dei Democratici, e il desiderio di non rompere con quella parte di elettorato, anche tra i progressisti, contraria alla liberalizzazione dell’aborto.

Anche sul piano della politica economica si intravvedono possibili rotture, segnalate dal forte ribasso in Borsa in occasione dell’insediamento, quasi doppio rispetto alla prima elezione di Reagan, penalizzato dal fatto di essere un attore e neppure tanto importante ( la sua rielezione fu invece accolta positivamente da Wall Street). Forse più significative sono le preoccupazioni per il timore di un ritorno degli Stati Uniti a politiche protezionistiche, soprattutto nei paesi emergenti che ne temono le conseguenze negative per le proprie economie.

Sono pochi a credere che sul successo di Obama sia stato ininfluente il fattore razziale e molti pensano che se Barack fosse stato bianco, ora gli Stati Uniti avrebbero un presidente donna. Ad un Obama commosso che dice che sessant’anni fa uno come lui avrebbe avuto difficoltà perfino ad entrare in un ristorante di bianchi, fa il contrappunto il “reazionario” vicepresidente uscente Dick Cheney, che si dice felice per l’elezione di Obama perché dimostra quanto grande sia il paese e quanti passi avanti abbia fatto in questi anni.

Tuttavia, il giorno dell’insediamento il Financial Times ha intervistato alcuni afroamericani dell’altra Washington, quella povera e diseredata, scoprendo che non tutti lo considerano uno di loro, non solo perché tecnicamente non lo è, ma perché fa parte a tutti gli effetti dell’establishment, al di là del colore della pelle. Obama ne è conscio e ha già promesso di adoperarsi per superare il divario economico e sociale tra le due Washington, ma difficilmente potrà adottare una politica preferenziale nei confronti degli afroamericani, a meno di voler far torto ad altre comunità in condizioni altrettanto disagiate, come buona parte degli ispanici. Qui le scelte in materia di aborto, per esempio, possono diventare una discriminante, così come saranno importanti le posizioni che prenderà in merito alla legislazione sull’immigrazione. Obama ha voluto porre la cerimonia del suo insediamento sotto l’egida di Abraham Lincoln, il primo Repubblicano eletto presidente degli Stati Uniti e promotore della abolizione della schiavitù, avvenuta dopo la fine della sanguinosa Guerra di Secessione, e dopo il suo assassinio, con l’approvazione del Tredicesimo Emendamento, il 6 dicembre 1865. Un secolo e mezzo dopo, gli Stati Uniti hanno un presidente per metà di origine africana, ma la strada degli afroamericani verso una completa emancipazione sembra ancora lunga.