Un costante “tormentone” della nostra vita politica è la lotta all’evasione fiscale, normalmente accompagnata da profondi discorsi morali. Ora, non vi è dubbio che si tratti di un reato, come lo è qualsiasi violazione di leggi, ma è discutibile che sia la violazione di una specie di undicesimo comandamento, come pretendono la sinistra e parte del mondo cattolico. È discutibile cioè, che pagare le tasse sia un imperativo categorico morale.

Intanto, bisognerebbe parlare di imposte, essendo le tasse il corrispettivo, totale o parziale, di un servizio prestato: se non si vuole pagare la tassa, si rinuncia al servizio. Se non si vuole pagare la tassa di circolazione si rinuncia ad andare in auto e si va in tram, e se non si vuole pagare neppure il biglietto si va a piedi. Ovvio, ma utile ai fini della discussione, perché il problema si pone con l’imposizione generale, la cosiddetta fiscalità generale, in cui non vi è nessun diretto e univoco rapporto con i servizi prestati.

Da un punto di vista teorico, uno Stato potrebbe essere basato solo sulle tasse, potrebbe cioè offrire solo servizi pagati direttamente da chi li utilizza. Ciò è del tutto estraneo, però, alla concezione moderna dello Stato, che ha il compito di offrire servizi a tutta la collettività, anche a chi non è in grado di pagarli o anche quando sono del tutto antieconomici. Qui soccorre appunto la fiscalità generale e sorge il problema delle imposte, che è sostanzialmente dato dalla non diretta connessione tra ciò che si paga e ciò che si riceve.

Riprendendo l’esempio dei tram, il prezzo del biglietto copre solo una parte dei costi, essendo il resto a carico della collettività attraverso la fiscalità generale. Ciò perché l’ente pubblico decide che la mobilità è utile per la collettività e che attuarla con i mezzi pubblici è la soluzione migliore. Una decisione quindi non morale, ma politica, e si parla non a caso di prezzo politico dei trasporti pubblici.

Lo stesso discorso si può applicare all’imposizione nel suo insieme e vale la pena qui di ricordare lo storico “no taxation without representation”; vale a dire che la tassazione è strettamente connessa alla partecipazione a uno Stato come cittadini a tutti gli effetti. Ma questa storica frase significa anche che il cittadino ha il diritto di interloquire sul tipo e sulla modalità di imposizione e su come vengono spesi i fondi così ottenuti.

Mi pare siamo lontani da questa trasparenza, perché lo Stato (cioè classe politica e apparato) ritiene che si tratti di una sua potestà di cui non deve dar conto. Infatti, la materia fiscale è sottratta alla possibilità di referendum, nella convinzione che i cittadini cancellerebbero ogni imposta, né vi è governo disposto ad andare a verificare se è effettivamente così. Perciò inizia una sorta di rincorsa tra “guardie e ladri”, tra fisco e contribuente, in cui il primo cerca di applicare ampiamente il motto “fatta la legge, trovato l’inganno” (infatti l’elusione viene equiparata tout court all’evasione) e lo Stato finisce per escogitare compromessi, più o meno dignitosi, per non dichiarare forfeit e portare a casa un po’ di soldi.

Se invece di un imperativo morale imposto da uno Stato etico, si considerasse il pagare l’imposte per ciò che è, cioè un dovere civico, forse le cose potrebbero cambiare. L’evasione non colpisce lo Stato, che infatti può aumentare le imposte, incrementando immoralmente il livello di imposizione su una base sempre più ristretta di cittadini. L’evasione colpisce gli altri cittadini che non evadono e la collettività tutta che ottiene servizi minori e di qualità peggiore.

Si tratta perciò di un problema di educazione civica, come per il codice della strada, ma alla base di ogni processo educativo c’è l’autorevolezza dell’educatore. Il che pone qualche problema, proprio perché lo Stato, soprattutto il nostro, non è abituato alla trasparenza e render conto di ciò che fa. Io non credo che gli italiani siano geneticamente più propensi all’evasione di altri europei, ma che per ragioni storiche siano meno propensi di altri a dare fiducia allo Stato. Con anche differenze non trascurabili tra le varie parti di Italia, che il federalismo fiscale, se correttamente applicato, aiuterà a far emergere e a correggere.

Lo Stato, così come concepito in gran parte dell’Europa e particolarmente in Italia, è uno Stato calato dall’alto, che per primo non si fida dei propri cittadini/sudditi, ampiamente ricambiato da questi. Se lo Stato fosse nato dal basso, basato quindi sul libero aggregarsi delle persone, intervenendo con le proprie strutture, partecipate e controllate dai cittadini, per rispondere ai bisogni che via via si fossero manifestati impossibili o troppo onerosi da soddisfare ai livelli più bassi, l’educazione civica, meglio civile, al pagamento delle imposte sarebbe spontanea, perché evidenti sarebbero le ragioni dell’imposizione. Ma, purtroppo, nessuno Stato moderno è nato all’insegna della sussidiarietà, né sembra esserci una gran voglia di cambiamento.