Una volta si diceva che uno dei problemi della macchina politico-amministrativa del nostro paese era l’abitudine, di fronte a un problema, invece di cercarne la soluzione di istituire un comitato. Sembra questa la strada su cui si sono messe anche le organizzazioni internazionali che, invece di affrontare i problemi, indicono conferenze. Abbiamo appena finito di parlare del G20 (con incorporato G2), che già siamo immersi nelle polemiche della conferenza ginevrina sul razzismo, il cosiddetto Durban II, mentre ci stiamo preparando all’imminente G8, che peraltro avrà qualche positivo effetto immediato, se sarà tenuto a L’Aquila.
A un osservatore esterno, le discussioni degli esperti sul G20 sono apparse un po’ come la questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. La conferenza è iniziata con un apparente scetticismo generale su un esito diverso dai soliti vuoti proclami, e chi vede il bicchiere mezzo vuoto non ha cambiato idea. Gli altri sembrano essersi accontentati di qualche apparente decisione e hanno proclamato il bicchiere mezzo pieno. Ma di cosa? Secondo gli esperti almeno della individuazione di tre problemi principali: la necessità di nuove regole, ulteriori finanziamenti per fronteggiare la crisi e i paradisi fiscali. Si vedano anche su ilsussidiario.net gli articoli, per esempio, di Campiglio e Bottarelli.
A leggere però le cronache, e anche i commenti degli stessi tecnici e addetti al lavoro, viene spontanea una domanda: ma le vecchie regole sono state applicate e in che modo? Eppure sembra che nessuno si sia chiesto, e si chieda, se chi doveva applicare le vecchie regole le ha applicate e non si è accorto che non funzionavano o, più semplicemente, non le ha applicate o le ha applicate male. Forse perché questo porterebbe ad individuare precise ed estese responsabilità, che potrebbero toccare anche più di un partecipante al G20. Più semplice, allora, inventare nuove regole e “ chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scurdammoce ‘o passate…” anche se il G20 non a Napoli, ma a Londra si è tenuto.
Se però chi ha dato si ritrova con le tasche svuotate, e chi ha avuto non solo la fa franca, ma si tiene pure il malloppo, poi non c’è da meravigliarsi se vi è un calo generale di fiducia e qualcuno esagera e passa alle vie di fatto. Non si tratta di giustizialismo, nessuno da appendere ai lampioni, ma di semplice efficienza. Infatti, i soldi stanziati a Londra per la crisi sono, a parere di molti commentatori insufficienti e in più affidati in buona parte a un Fondo Monetario Internazionale che gia da tempo si voleva riformare, perché ritenuto non più adeguato, e che non può essere considerato uno spettatore innocente nell’attuale crisi.
Forse per questo si è dato un gran rilievo alla questione dei paradisi fiscali, ma sembra un ballon d’essai che a noi scafati italiani ricorda i ciclici proclami dei nostri politici contro l’evasione fiscale. Anche senza condividere fino in fondo lo scetticismo di un esperto come il professor Masciandaro, desta qualche sorpresa l’invenzione della lista grigia, perché si sa che di notte tutti i gatti sono bigi, e così suona il mettere insieme, che so, la Svizzera e le Isole Caimane. E la fiducia sulla serietà di intenti viene ancora più scossa dal fatto che nella lista vi sono Stati membri dell’Unione Europea e Stati facenti parte degli Stati Uniti: cari leader europei e caro Obama, non riuscite a metter ordine in casa vostra e pretendete di metterlo a casa degli altri?
In realtà non tutto è stato grigio, perché una luce è in effetti brillata ed è la coppia Barack e Michelle Obama che, secondo le cronache ha mandato in sollucchero l’intera Europa, almeno quella dei potenti. Mica come quel rozzo texano di Bush. Per fortuna il nostro presidente del consiglio ha messo a posto le cose facendosi rimbrottare dalla Regina, anche se nessuno mi togle dalla testa che Elisabetta temesse trattarsi di suo marito Filippo, membro eccellente del Guinness delle gaffes. In realtà anche la coppia presidenziale qualche scivolata l’ha fatta, e passi per l’abbraccio di Michelle alla Regina, sulla cui reazione allo strappo all’etichetta le cronache sono divise. Ma Barack si è esibito in un invito, non certo sottovoce, all’Europa ad accogliere nel suo seno la Turchia.
Che la Turchia abbia finora svolto un ruolo importante di bastione estremo della Nato e dell’Occidente, e perfino di Israele, è indubbio, ma è altrettanto evidente che la situazione sta cambiando e non per il meglio. A cominciare dai rapporti con Israele e con l’estremismo islamico, che si stanno muovendo in senso opposto, in deterioramento per i primi e in progressivo avvicinamento per i secondi. Il discorso è molto complesso, come anche risulta dall’editoriale di Fontolan di qualche tempo fa, ma proprio per questo dovrebbe essere usata più prudenza dal presidente degli Stati Uniti. E stupisce che nessuno dei suscetttibili leader europei, anche tra quelli che si sono immediatamente e decisamente opposti, come Merkel e Sarkozy, abbia invitato Obama a farsi gli affari propri e, se proprio ci tiene, ad accogliere la Turchia negli Stati Uniti, magari insieme a Portorico, in bilico tra indipendenza e entrata definitiva come cinquantunesimo stato.
Su un aspetto vi è stato comunque buio completo, su come Obama intende porre rimedio alla vera e profonda causa dell’attuale crisi, e cioè che gli americani da troppo tempo spendono più di quanto guadagnano, scaricando i loro debiti sul resto del mondo. È probabile tuttavia che di questo si sia parlato, e ampiamente, al cosiddetto G2 tra Usa e Cina e che al buio sia rimasta solo l’Unione Europea, che si consolerà rapidamente con qualche nuova risoluzione radical-chic.