Secondo gli ultimi sondaggi, la popolarità di Obama starebbe calando negli Stati Uniti anche tra coloro che si dichiarano apertamente suoi sostenitori. Un risultato evidente della non sufficiente capacità di mantenere le promesse elettorali, forse troppo vaste e ambiziose, e di un’eccessiva esposizione mediatica che tende a enfatizzare tutto, in positivo ma anche in negativo. Esposizione mediatica che sembra invece funzionare all’estero, dove la popolarità del presidente americano sembra ancora molto alta, non essendosi ancora confrontata con la realtà dei fatti e con una oggettiva valutazione dei programmi dell’Amministrazione. Pur lasciando agli esperti di entrare nel merito e nei dettagli, si possono proporre alcune osservazioni di carattere generale.

Uno degli errori rinfacciati a Bush è la guerra in Iraq, contro la quale in effetti si schierò Obama, mentre Hillary Clinton votò a favore, e molteplici e fondate erano le ragioni per opporsi: basti pensare alla posizione di Giovanni Paolo II. Tuttavia, la responsabilità non fu totalmente di Bush, ma a parte i soliti tentennamenti degli europei, inglesi esclusi, determinanti furono le ambiguità della Russia e l’aperto sabotaggio della Francia, dati i loro cospicui interessi in Iraq che Saddam Hussein si guardava bene dal minacciare.

La responsabilità dell’Amministrazione Bush è invece totale nella conduzione disastrosa del dopoguerra, costata distruzioni e morti probabilmente evitabili. Se però ora Obama può annunciare il ritiro graduale delle truppe americane, lasciando l’Iraq al suo governo, è perché nonostante tutto esiste una exit strategy perseguibile, fondamentalmente non dissimile da quella della precedente Amministrazione. Pur rimanendo il futuro di quel Paese incerto ed esposto a possibili esiti tragici, con un terrorismo che sta diventando endemico, le divisioni etniche e religiose, e qui non si può non segnalare la drammatica situazione dei cristiani locali, e le ambizioni dei Paesi vicini.

Eppure, la situazione appare decisamente migliore rispetto al caos afgano, che si va sempre più aggravando, nonostante questa guerra sia stata molto meno contestata di quella irachena e perfino condotta sotto le bandiere dell’Onu. Bisogna qui dar atto al realismo di Obama, che da subito ha dichiarato prioritaria la ripresa del controllo dell’Afghanistan, deludendo così i pacifisti e le sinistre europee, abituati ai “ritiri senza se e senza ma” alla Zapatero. Invece, Obama vuole spostare truppe dall’Iraq all’Afghanistan e ha perfino chiesto un maggior impegno bellico degli alleati, molti dei quali pensavano che bastasse sfilare con le bandiere dell’Onu, non fare anche e per davvero la guerra.

Per quanto riguarda l’Iran, la mano tesa di Obama è stata rifiutata dal regime teocratico che, al pari di Bin Laden, ha affermato di non vedere differenze tra lui e Bush, mentre le attuali manifestazioni contro Ahmadinejad pongono ulteriori problemi all’Amministrazione americana. Se Obama le appoggia apertamente e concretamente espone i contestatori all’accusa di essere al servizio dell’imperialismo americano, mettendoli in decisa difficoltà. Dall’altro canto, non prendere una netta posizione significherebbe ammettere la propria irrilevanza in uno scacchiere così importante.

Un simile rischio si profila anche nei confronti della Corea del Nord, perché è sempre più chiaro che risultati concreti è probabile vengano ottenuti semmai dalla Cina, magari di conserva con la Russia. Questi Paesi sono due altre spine nel fianco degli Stati Uniti e sembrano poco propensi a farsi incantare dal presidente americano. In realtà la Cina è ben decisa a togliere agli Usa il ruolo di unica superpotenza, ed è convinta di riuscirci, e la Russia è altrettanto decisa a riconquistare un dominio diretto o indiretto su buona parte dell’ex impero sovietico.

In Medio Oriente, le posizioni più intransigenti del nuovo governo israeliano hanno portato gli Stati Uniti su posizioni più aperte verso i palestinesi, facilitando così Netaniahu che si presenta come il difensore della nazione israeliana, o addirittura ebrea. Né è pacifico un ritorno positivo dal campo arabo, in cui l’estremista Hamas prende sempre più forza nei confronti di un al Fatah in crisi.

Rimarrebbe da parlare dell’Europa, ma bisognerebbe condurre un esame almeno sulle diverse aree che la compongono. Inoltre, forte è l’impressione che la perdita di importanza strategica dell’Europa sia ormai un processo avviato e difficile da invertire. Vale la pena però di ricordare un’uscita di Obama durante la sua visita europea, quando invitò la UE ad accogliere la Turchia. La cosa apparve un’invasione di campo, come se l’UE chiedesse agli Stati Uniti di far diventare finalmente Portorico uno Stato con pieni diritti, ma diede anche l’impressione che la Turchia stesse diventando un problema per Obama, mentre l’entrata nell’UE l’avrebbe resa un problema soprattutto europeo. Forse l’uscita di Obama non era solo una questione di galateo internazionale.