Forse ha ragione Mauro Bottarelli: d’ora in poi, accanto alla geopolitica bisognerà utilizzare la geofinanza per capire qualcosa sugli sviluppi degli assetti politici nel mondo.
La finanza ha sempre svolto un ruolo molto importante nella politica internazionale, fin dai tempi dei banchieri italiani del Rinascimento, di cui Londra porta ancora il ricordo nella Lombard Street della City, o, per tornare ai nostri giorni, allo sconquasso provocato qualche decennio fa da George Soros. Ma ora sono gli Stati a usare l’arma finanziaria e, come si diceva una volta della guerra, la finanza diventa un altro modo di continuare la politica.

Il quadro è un po’ appannato dall’attuale crisi economico-finanziaria mondiale, che può essere descritta come la guerra di una casta di manager di banche e imprese finanziarie contro singoli, imprese e istituzioni per saccheggiarne i patrimoni, sotto gli occhi di autorità di controllo e politici distratti, incapaci, talvolta collusi, e tuttora incapaci di riprendere il bottino ai malviventi.

Il vero confronto a lungo termine è tra le superpotenze: Stati Uniti, Cina, Russia. Sono questi i protagonisti di guerre e alleanze, anche se i comprimari sono molti, con buona pace di chi pensava che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fosse rimasta un’unica superpotenza, gli Stati Uniti, cui addebitare tutti i mali del mondo.

Gli Stati Uniti, a parte la forza militare, hanno finora usato tre armi: il dollaro come moneta universale, Wall Street come maggiore piazza finanziaria mondiale e la massa imponente dei loro consumi. L’uso combinato di questi tre elementi ha fatto sì che praticamente nessun Paese potesse dirsi realmente indipendente dall’economia americana.
In futuro questo modello rischia di non funzionare più così bene, e non tanto per la debolezza del dollaro o per la crisi di Wall Street, che si riprenderanno e continueranno, sia pure indeboliti, a svolgere un ruolo determinante. Il vero problema è dato dalla necessità di riproporzionare i consumi interni alle capacità produttive e reddituali degli Usa, che non potranno più vivere a debito nella misura del passato.
Questo ridimensionamento porrà problemi anche ai Paesi esportatori verso gli Stati Uniti per la contrazione conseguente nel loro export: in fondo, andava bene a tutti che gli americani consumassero più di quanto avrebbero dovuto.

In particolare la Cina ha sfruttato questo modello, fornendo prodotti di consumo a basso prezzo agli americani in cambio della sottoscrizione di ingenti quote del loro debito pubblico.
Il potere finanziario così acquisito è destinato però a diminuire secondo lo scenario delineato e, se dal punto di vista strettamente economico la Cina può contare sullo sviluppo del suo enorme mercato interno, la minore potenza finanziaria può minacciarne il ruolo a livello internazionale.
La Cina ha comunque a disposizione l’arma demografica, quasi un quinto della popolazione mondiale, e in molti Paesi vi sono ormai forti colonie cinesi. Inoltre, il regime dittatoriale consente rapidità di decisione e utilizzo della forza bruta per imporle, senza tutti i limiti imposti agli Stati Uniti e alle altre nazioni occidentali. Infine, il riferimento agli splendori passati di una civiltà millenaria e il nazionalismo degli han danno una copertura ideologica che si affianca a quella comunista.

Il nazionalismo è un ingrediente importante anche per Putin nel suo tentativo di riportare sotto l’influenza russa gli Stati che componevano l’Unione Sovietica, soprattutto quelli in cui vivono forti minoranze russe. La forza finanziaria della Russia è strettamente collegata a gas e petrolio, efficace solo quasi con l’Europa, per cui si potrebbe parlare di potenza regionale. Di certo non è questa l’intenzione di Putin che in diversi scacchieri, vedasi quello medio-orientale, sembra ripercorre la politica sovietica: la Russia può quindi giocare un ruolo di terzo incomodo verso il G2 e le sue scelte possono diventare determinanti in molte aree conflittuali.

E l’Europa? Per il momento rimane terreno di incontro e scontro tra le tre superpotenze, in assenza di un’unica e determinata politica estera, che non vi sarà senza un esteso accordo tra le forze politiche, gli Stati dell’Unione Europea e i loro popoli. Non è possibile avere una politica estera europea se manca l’Europa.

(Augusto Lodolini)