Qualche tempo fa mi è capitato di ascoltare la predica di un missionario che, per descrivere l’abitudine a non buttar via niente e a riutilizzare tutto nei villaggi africani della sua missione, parlava di “economia del pancotto”. È per questo, aggiungeva, che lì i villaggi sono puliti, a differenza delle città intasate di rifiuti come quelle occidentali.
Sentendo quelle parole mi sono tornati in mente i tempi della mia infanzia, subito dopo la seconda guerra mondiale, prima del boom economico. Anche nella mia famiglia, non indigente ma in cui occorreva essere molto oculati per arrivare alla fine del mese, il pancotto era di casa e non si buttava via niente, se non costretti: lasciare andare a male qualcosa era considerato un peccato, nel senso letterale del termine. Le merendine non esistevano e imperava il pane imburrato con un velo di zucchero, al massimo con la marmellata, magari fatta in casa con la frutta troppo matura.
Anche con l’abbigliamento si stava molto attenti e accanto ai coloranti per capelli, la cui tintura veniva fatta rigorosamente in casa fino a quando i risultati disastrosi costringevano a ricorrere alla parrucchiera, era rigoglioso il mercato delle tinture per indumenti. Maglioni ricolorati e cappotti rivoltati allungavano di parecchio la durata dei capi, ed era normale passare i vestiti di figlio in figlio, o a cugini e amici. Quando gli indumenti erano decisamente non più utilizzabili, se ne facevano stracci o si rivendevano agli stracciai che periodicamente percorrevano le strade cittadine, manifestando la loro presenza con grida tipiche nel dialetto locale.
Pur non essendovi ancora la raccolta differenziata, vi erano molti meno rifiuti, dato che era sconosciuto l’“usa e getta” e dominava il vuoto a rendere. Un meccanismo che credo ora venga percepito come bizzarro e che consisteva nel lasciare una somma a garanzia delle rotture presso il negozio sotto casa, cui si riportavano le bottiglie vuote per poter comprare quelle piene di prodotto. In altri casi, lo “scambio” poteva avvenire direttamente con il produttore, come nel caso delle bottiglie del latte.
Anche il problema delle confezioni era molto più limitato, in quanto la spesa si faceva ogni giorno e si comprava a peso quello che serviva immediatamente o nel giro di poco. Le confezioni erano quindi in buona parte sostituite da una varietà di tipi di carte, ciascuna adatta ad incartare una tipologia di prodotto. Tra le più note, la carta oleata, la carta paglia e la carta azzurra da zucchero. Anche queste carte, appena possibile, venivano messe da parte e riutilizzate.
Economia di sussistenza? Non direi. Di certo nulla di simile alla situazione attuale di gran parte dei paesi sottosviluppati di oggi; un’economia improntata alla sobrietà, senza dubbio dovuta a una situazione oggettiva, ma in buona parte risultato di un atteggiamento di fondo, ancora restio allo spreco. Una rivisitazione da fare, forse, in momenti in cui il termine sobrio sembrerebbe tornare in auge.
È probabilmente impossibile tornare a quel tipo di economia, ma potrebbe essere tutt’altro che inutile approfondirne alcuni aspetti, che ancora oggi potrebbero essere utili per sviluppare una equilibrata economia dei consumi, cui corrisponda anche una coerente politica produttiva. Come cercheremo di approfondire in un prossimo articolo.