Da vecchio milanese, nato molti decenni fa in questa città, non posso che trovarmi totalmente d’accordo con l’ultimo articolo di Luca Doninelli, anche nella sua parte “politica”. Giustamente Doninelli non parte dagli schieramenti politici o dalle capacità personali dei candidati, ma dal cuore della questione: per governare bene una città si deve capirne l’anima, si deve rispettarla, di più, si deve amarla. Anche quando la si debba, o la si voglia, correggere, perché senza amore non vi è correzione, ma distruzione. Ciò vale per i figli, ma vale anche nel rapporto con chiunque, anche per quelle “cose animate” che sono le città.
Doninelli ha ancora ragione nel dire che Milano è una città particolare, e non vi è retorica in questo, perché le esperienze personali, sinceramente espresse, non hanno nulla a che vedere con la retorica: semmai, sono intrise di nostalgia, ma anche la sofferenza della nostalgia diventa stimolo ad agire, se non ridotta a sterile piagnisteo sui “bei tempi andati”.
Ho detto che sono milanese, ma come la stragrande maggioranza dei milanesi, sono di origini miste, per metà lombardo e per metà marchigiano; mia moglie è per metà lombarda e per metà abruzzese. Le nostre metà lombarde non sono milanesi, per cui nelle nostre famiglie i dialetti “possibili”, ma sostanzialmente poco usati, erano ben cinque.
I racconti di mio padre, arrivato a Milano dal Lodigiano a 11 anni, e di mia madre, arrivata alla stessa età dalla ben più diversa Ancona, non descrivevano una città immediatamente accogliente, fatto questo poi verificato con tanti altri arrivati da fuori. Ma dietro questa scorza ruvida, e una città oggettivamente difficile, si scopriva presto una capacità di accoglienza che finiva per far sentire a casa propria chi aveva saputo, o potuto, resistere al primo, sconcertante impatto. I milanesi si sono sempre vantati, qui sì con un filo di retorica, di avere “il cuore in mano”, ma questo cuore non riguarda tanto la generosità, quanto questa apertura, come dire “caratteriale”, all’altro. Proprio perché il popolo milanese si è costruito con gli altri.
Ha ancora ragione Doninelli quando dice che Milano è diversa e non è una nota di merito o di demerito, è una constatazione realistica. L’Italia è il Paese dei mille campanili, ma anche delle cento capitali, come conseguenza della nostra storia frastagliata: Milano, è vero, non ha l’aria della capitale. Se dovessi paragonarla a un’altra città, con tutte le imprecisioni e i limiti proprie delle analogie, aggravati dalle mie limitate conoscenze, mi verrebbe in mente New York, un’altra grande città che non è capitale. Anche a New York non si respira un’aria da “capitale”, ma si ha l’inequivocabile sensazione di essere in un luogo centrale, dal quale è difficile prescindere, nel bene e nel male.
Con tutte le enormi differenze tra le due città, credo sia la stessa sensazione che si percepisce venendo a Milano, alla quale anche si può attribuire la caratteristica riconosciuta a NYC, quella di melting pot, di crogiuolo. Tornando alla mia esperienza personale, Milano consente il mantenimento di una “doppia nazionalità”, non semplice cittadinanza, ma nazionalità, cioè appartenenza non conflittuale a due popoli, per cui io posso sentirmi milanese e anconetano alla pari. Credo sia un’esperienza diffusa tra i milanesi, ma mi chiedo quanto usuale in altre città.
Quanto sopra non coincide con le caratteristiche di una città cosmopolita, anzi in un certo senso è il suo contrario, perché in quest’ultimo caso le varie nazionalità convivono, non si fondono, pur mantenendo affezione e fedeltà per le proprie diverse origini. Probabilmente, altre città europee, e anche italiane, sono di gran lunga più cosmopolite di Milano che, di fronte alla nuova immigrazione, deve prendere una grave decisione: continuare la propria tradizione di crogiuolo di popoli diversi o accontentarsi di diventare una città cosmopolita, come tante altre.