Ci risiamo. Un’altra nave ha cercato di forzare il blocco israeliano alla Striscia di Gaza ed è stata fermata e dirottata dalla Marina di Israele. Questa volta, per fortuna, non vi sono state vittime, a differenza del 2010 quando rimasero uccisi nove attivisti turchi.

La nave, Estelle, battente bandiera finlandese e partita il 7 ottobre da Napoli, aveva a bordo una trentina di attivisti pro palestinesi e trasportava cemento e medicinali. Tra i passeggeri, di otto Paesi diversi, c’erano anche cinque membri del Parlamento europeo, uno spagnolo, uno svedese, un norvegese e due greci, e sembra anche degli israeliani.

Prepariamoci, quindi, alla solita sparatoria dalle due contrapposte trincee, pro e contro Israele. Il mondo arabo, e buona parte dell’Occidente, saranno compatti nel condannare Israele; in Israele, invece, si riaprirà il dibattito tra chi sostiene il blocco e chi lo ritiene ingiusto o quantomeno inutile. Un dibattito, cioè, tipico di un Paese democratico, ancorché in guerra da più di sessant’anni.

La popolazione di Gaza, la vera vittima di questa situazione drammatica, rimarrà solo l’oggetto del contendere e continuerà a soffrire per l’oppressione di un regime come quello di Hamas e per le rappresaglie israeliane, non sempre giustificate e comunque discutibili.

Sullo sfondo rimarrà anche la vera utilità del blocco. Eppure, tutti i blocchi della storia, a partire dal Blocco continentale di Napoleone, hanno dimostrato di essere disastrosi per le popolazioni civili, ma poco incisivi sui governi e molto vantaggiosi per trafficanti e contrabbandieri. Anche nel caso di Gaza, il governo israeliano dovrebbe valutare forse meglio i vantaggi dell’embargo in minor traffico di armi e i danni, ben maggiori, che apporta all’immagine di Israele e ai civili di Gaza.

D’altro canto, le azioni come quelle della Estelle paiono avere molto più a che fare con lo schierarsi politicamente che con una reale volontà di portare aiuto ai civili della Striscia. Insomma, è difficile togliersi la sensazione che siano azioni dimostrative a sostegno della causa politica palestinese.

Credo che tutto ciò non faccia che peggiorare la situazione dei palestinesi, come le azioni unilaterali per il riconoscimento, che tanto appoggio hanno presso certi circoli politici europei. La situazione della Palestina potrà essere risolta solo insieme a quella di Israele e ciò richiede che i palestinesi, e il resto del mondo arabo, riconoscano il diritto di Israele a esistere, finora riconosciuto solo da Egitto e Giordania con la firma del trattato di pace.

Sarà bene ricordare che questo diritto è apertamente negato da Hamas e dal suo sponsor e finanziatore, l’Iran attraverso la Siria degli Assad. La guerra che contrappose Hamas e Fatah tra il 2006 e il 2007, con parecchie decine di morti, dopo il ritiro israeliano da Gaza, ha nettamente diviso in due i palestinesi, rendendo di fatto Hamas indipendente dall’Autorità palestinese di Abu Mazen.

Israele si trova così a dover discutere con due interlocutori e ben diversi, dato che Fatah è rimasta una organizzazione laica, almeno per ora, a differenza dell’integralista Hamas. Questo favorisce, purtroppo, le prese di posizioni della destra israeliana attualmente al governo, atteggiamento altrettanto poco consono a concreti avanzamenti nel processo verso la creazione di due Stati, che avrebbero già dovuto essere creati nel 1948, ma che così non fu poiché gli Stati arabi attaccarono il neonato Stato di Israele, rimanendo sconfitti.

Si può sperare che le imminenti elezioni in Israele portino a cambiamenti positivi e che le difficoltà di Siria e Iran inducano ripensamenti nella leadership di Hamas, ma purtroppo non vi sono molte speranze in tal senso. A maggior ragione, dall’esterno occorrerebbero meno azioni dimostrative e di parte e più interventi concreti in favore di una pace duratura, e giusta. Ma così si rischierebbe di non finire sui media.