Il governo Monti è sotto costante attacco per quello che fa e per quello che non fa; ciò è dovuto in parte a obiettive mancanze dell’attuale esecutivo, in parte è fisiologico per chi, appunto, deve operare, e si sa che chi fa sbaglia. Il problema è che a non fare, di solito, si sbaglia ancor di più, come sta capitando a questo governo.
Ciò che sorprende è che si parli molto meno di un altra istituzione centrale nella nostra democrazia, il Parlamento. Si parla, e male, della classe politica in generale o dei singoli personaggi, vecchi o pseudo nuovi che siano, ma il Parlamento sembra ancorato in una sorta di porto delle nebbie.
In questo si potrebbero trovare anche lati positivi, dato il diluvio di leggi che affligge l’Italia, per lo più scritte in buro-politichese, in frequente contraddizione tra loro e la cui applicazione è spesso ritardata dalla mancanza dei regolamenti attuativi. Non a caso il numero delle leggi vigenti in Italia è incommensurabilmente maggiore rispetto a tutti i Paesi occidentali, per cui il precedente governo aveva istituito addirittura un ministero per ridurle, vale a dire nuova burocrazia per combattere la burocrazia.
Temo, però, che il Parlamento continui, in silenzio, a produrre leggi, ma forse non i provvedimenti fondamentali per l’Italia e non demandabili a un esecutivo, anche fosse composto, e non lo è, da superuomini. Provo a citare qualche esempio. Parto da un sempreverde: i costi della politica, che non sono certo riducibili a quanto guadagnano i politici. Importante sotto questo profilo un provvedimento che, se non erro, aveva già trovato nella precedente legislatura il sostanziale accordo dei partiti: lo smantellamento del nostro sistema perfettamente bicamerale, forse unico esempio in Europa. Una riforma che avrebbe ridotto notevolmente i tempi di legiferazione, avrebbe reso più trasparente l’elaborazione delle leggi, senza i chiaroscuri del ping – pong tra le due camere e, con il Senato regionale, avrebbe reso più diretta ed efficiente anche l’azione di controllo.
La semplificazione e accelerazione del processo legislativo avrebbe portato, inoltre, a maggiore efficienza e riduzione del costo dell’amministrazione pubblica. Perché non se ne è fatto più niente? Difficile non pensare che sia per la riduzione sensibile che la riforma avrebbe apportato al numero dei parlamentari, altro punto su cui tutti concordano, purché tocchi gli altri. Un “not in my pocket”che va ad aggiungersi al più famoso “not in my back yard”.
E allora, torniamo a quanto guadagnano i parlamentari, riprendendo un altro provvedimento su cui tutti sembravano d’accordo: l’adeguamento del trattamento dei nostri rappresentanti a quello dei loro colleghi negli altri Stati europei. Qualcuno ne ha più sentito parlare?
Nel luglio 2011 era stata costituita una commissione, presieduta dal presidente dell’Istat Enrico Giovannini, con il compito di condurre le opportune indagini a livello europeo. Nel gennaio di quest’anno, la commissione ha presentato un rapporto preliminare da cui, pur nell’eterogeneità dei dati, i nostri parlamentari apparivano più “ben messi”, per esempio, dei loro colleghi francesi, tedeschi e, soprattutto, spagnoli.
Il colpo di scena avviene il 30 marzo 2012, quando la commissione presenta il rapporto finale ma, contemporaneamente, rimette il proprio mandato, con questa motivazione:
” Nonostante l’intenso lavoro svolto, i vincoli posti dalla normativa, l’eterogeneità delle situazioni riscontrate negli altri paesi e le difficoltà incontrate nella raccolta dei dati hanno impedito alla Commissione di produrre i risultati attesi. (omissis) Di conseguenza, nessun provvedimento può essere assunto dalla Commissione per i fini previsti dalla legge. Per le motivazioni descritte in questa Relazione la Commissione segnala al Governo l’opportunità di riconsiderare la normativa vigente, la quale appare obbiettivamente di difficile (se non impossibile) applicazione.”
La sottolineatura è nel rapporto ufficiale della commissione.
Non si hanno motivi per pensare che la commissione abbia lavorato male, infatti nessuno lo ha affermato, e il rapporto esplicita difficoltà derivanti da come il precedente governo aveva articolato il mandato. L’attuale governo, preso atto della situazione, aveva promesso di continuare l’analisi del problema. Bene. Ma il Parlamento? Poiché sarebbe maligno pensare che i nostri rappresentanti abbiano tirato un gran respiro di sollievo (con magari un perfido sorrisetto dei più smagati, che sanno benissimo come finiscono le commissioni), sono convinto che invece stiano silenziosamente elaborando un rigoroso programma di revisione dei loro emolumenti e benefici. Di cui saremo informati a brevissimo termine, visto che sono già passati sei mesi e il nuovo Parlamento incombe.
In questa direzione è andato anche il discorso del Presidente della Repubblica ad Assisi, con il suo profondo richiamo alla moralità e alla necessità che il bene comune abbia il sopravvento sugli interessi particolari. Mi aspetto quindi tra non molto un annuncio a sorpresa di Napolitano, che metterà in bella mostra e in modo del tutto trasparente il bilancio del Quirinale, spiegandoci le ragioni per cui la nostra presidenza costa molto di più di quella tedesca, che ha funzioni equivalenti, e perfino di quella francese, molto più operativa.
In discussione non è l’attuale inquilino del Quirinale, che non ha di certo creato questa situazione e che ha anzi cercato almeno di frenare l’incremento costante dei costi. Né vi è in prima linea l’emolumento del Presidente, che mi pare sia di circa 240.000 euro tassati. Anche qui il punto è rivedere tutto l’assetto, liberandolo da spese e benefici cumulatesi nel tempo, e stabilire il giusto bilancio per l’efficiente funzionamento dell’istituzione, magari guardando anche agli esempi di altri Paesi.
Insomma, quello che si doveva fare con il bicameralismo perfetto e gli emolumenti dei parlamentari, ma non si è fatto. Però, signor Presidente, ci dica che a Lei non servono commissioni, che queste cose le sa fare da solo, anzi le sta già facendo. Possiamo sperarlo?