Obama ha vinto e alla grande, se si considerano i cosiddetti “voti elettorali, cioè i voti attribuiti da ogni stato al candidato che ha ottenuto la maggioranza, la cui somma su base nazionale decide poi la vittoria finale: 332 contro 206 di Romney, ben al di là del minimo richiesto di 270 voti. Non vi sono dubbi, quindi, che quando a metà dicembre si riunirà il Collegio elettorale, Obama verrà ufficialmente proclamato presidente eletto.
Se si guardano i voti direttamente espressi dagli elettori, i cosiddetti voti popolari, i risultati sono meno eclatanti: il 50% a Obama e il 48% a Romney. Un risultato inferiore al 53% ottenuto contro McCain (46%) nel 2008.
In questo elettorato spaccato a metà, le donne hanno votato per il 44% per Romney e per il 55% per Obama, percentuale che diventa del 96% per le donne nere e del 76% per le ispaniche, e solo del 42% tra le donne bianche (contro il 35% dei maschi). Obama ha avuto la maggioranza dei voti dei non sposati, Romney ha vinto (53%) tra le coppie sposate, ma ha perso largamente tra i più giovani. Gli elettori dai 18 ai 29 anni, il 19% degli elettori, hanno votato per il 60 % per Obama, che ha ottenuto però solo il 44% degli elettori oltre i 65 anni. Per quanto riguarda la componente etnico/razziale, Obama ha perso tra i bianchi, ma è stato votato in massa da neri (più del 90%) e ispanici (più del 70%).
Sembra evidente che ad indirizzare il voto vi siano stati altri temi, oltre quello della situazione economica. L’atteggiamento di chiusura sull’immigrazione di buona parte del Partito Repubblicano ha senz’altro pesato molto sul voto ispanico, tanto che all’interno del GOP cominciano a emergere posizioni molto più comprensive nei confronti di questo problema. Un tema su cui la Chiesa cattolica si è sempre espressa con molta chiarezza.
Un altro aspetto che sembra delinearsi importante, a giudicare dal voto dei giovani e dei non sposati, è l’atteggiamento nei confronti del matrimonio e dei cosiddetti diritti civili,. Una conferma sembrerebbe venire dagli exit poll nei quattro stati in cui si è votato per la legalizzazione dei matrimoni gay: i due terzi degli elettori nella fascia 18-29 anni hanno dichiarato di aver votato a favore, contro solo un terzo degli elettori sopra i 65.
Anche su questi temi la posizione della Chiesa cattolica è stata molto ferma. Interessante, quindi, vedere come hanno votato i cattolici, che rappresentavano in queste elezioni presidenziali un quarto degli elettori: 50% per Obama e 48% per Romney, contro il 54% e il 45% (per McCain) del 2008. Viene confermata la vittoria di Obama (75%) tra i cattolici ispanici, mentre tra i cattolici bianchi Romney vince con il 59%. E’ interessante notare che, considerando le ultime quattro elezioni presidenziali, si tratta della divaricazione più ampia, indice di una crescente radicalizzazione.
Nonostante il plebiscito tra i protestanti neri, Obama perde a favore di Romney tra protestanti ed evangelici, mentre vince con percentuali dal 70% in su tra le altre fedi e tra in non credenti. Infine, tra chi frequenta i servizi religiosi almeno una volta alla settimana Romney prende il 59% dei voti, mentre Obama ottiene il voto rispettivamente del 55% e del 62% tra chi frequenta meno o mai.
Guardando solo ai dati, e tenendo conto che si tratta di exit poll, la situazione non parrebbe radicalizzata in modo estremo rispetto al 2008, eppure si è parlato per questa campagna di “culture war”, di una guerra culturale. Ciò non stupisce, se si tiene conto dei toni virulenti della campagna elettorale o del conflitto tra l’amministrazione Obama e la Chiesa cattolica, e altre comunità religiose, sul tema della libertà religiosa. Questa volta, fatto eccezionale, alla vicepresidenza vi erano due candidati cattolici, ma uno pro-choice, Joe Biden, l’altro pro-life, Paul Ryan, quest’ultimo sostenitore di tagli al welfare state contrastati dai cattolici Democratici e criticati dalla Chiesa; insomma, due candidati simboli della divisione che intercorre tra i cattolici americani.
La sensazione è che gli americani questa volta siano andati a votare “turandosi il naso” e che molti abbiano votato un candidato, più che per convinzione, per evitare che vincesse l’altro. E qualcuno comincia a chiedersi se valeva la pena di spendere 6 miliardi di dollari (di cui 2,6 per le presidenziali) in queste elezioni e se non sarebbe stato meglio utilizzarli per le vittime dell’uragano Sandy.