“Vai avanti tu che mi vien da ridere” è il titolo di un film di trent’anni fa, protagonista Lino Banfi, ma potrebbe essere anche il titolo del dossier sulla Tobin Tax all’europea. La Germania era stata tra i maggiori sponsor, con la Francia, di questa tassa sulle transazioni finanziarie, ma sembra abbia deciso di rinviare tutto al 2016, lasciando andare avanti la Francia, che l’ha già applicata come parte del programma elettorale di Hollande. Con già qualche segnale di fuga di capitali verso il vicino Belgio.
Come ribadito più volte da James Tobin, l’economista che la propose nel 1972 e che fu premiato col Nobel nel 1981, una tassa simile può funzionare solo se applicata su scala globale, o almeno a gran parte degli Stati, a partire da quelli che ospitano le maggiori centrali finanziarie. Il punto è che né il Regno Unito, con la City, né gli Stati Uniti, con Wall Street, hanno intenzione di applicarla, né lo faranno altre piazze importanti quali Hong Kong o Singapore.
Anche nell’Eurozona non vi è un grande accordo: in linea di principio, l’hanno accettata undici membri, mentre sette l’hanno rifiutata, inclusi “Paesi virtuosi” come Olanda e Finlandia. Perché il governo Monti ha deciso di introdurla prima degli altri, senza almeno aspettare risultati consolidati dall’apripista francese?
C’è chi parla di un segnale che il governo ha voluto mandare per dimostrare di non essere dalla parte della finanza, altri sostengono invece che sarà il solito regalo ai banchieri. C’è chi sottolinea l’aspetto ideologico, teso a colpire la finanza “sterco del demonio”, ma altri sottolineano i danni che una simile tassa porterà alle imprese e ai risparmiatori, quindi all’economia reale. Non vi è dubbio, quindi, che si tratti di materia controversa sulla quale è rischioso fare i primi della classe, oltretutto evidenziando qualche contraddizione. Si è sempre sostenuto che il nostro sistema bancario si distingue per la sua trasparenza e per essersi tenuto distante dai vari “dark pool” (diciamo, pozzi neri) e prodotti tossici della finanza internazionale. Se è così, avremmo dovuto essere gli ultimi ad applicarla, non i primi.
Inoltre, il nostro sistema economico è decisamente bancocentrico, per tradizione culturale e per una certa limitatezza della nostra Borsa, e non credo che l’applicazione unilaterale della Tobin Tax aiuterà molto il nostro mercato finanziario. Sarà anche bene ricordare che Piazza Affari dal 2007 è stata acquistata dalla Borsa di Londra e fa parte del London Stock Exchange Group. Per i grandi investitori, e per gli speculatori in senso stretto, non sarà perciò difficile operare direttamente su Londra, cosa che molti già fanno, evitando la nostra provinciale tassa.
Gli addetti ai lavori hanno già posto in evidenza una serie di problemi tecnici relativi a questa formulazione della Tobin Tax, ma un paio sono particolarmente chiari per tutti. Il primo è che la tassa riguarderà solo le aziende quotate con capitalizzazione di Borsa superiore ai 500 milioni di euro, circa due terzi dei titoli quotati. Questa scelta discrimina tra i settori e all’interno dei vari settori e francamente non ne capisco la ragione. Le società con maggiore capitalizzazione sono anche quelle con maggiori volumi trattati, quindi meno sensibili a manovre speculative importanti, che richiederebbero grossi capitali e alle quali una tassa come questa non porterebbe alcun freno.
Sono anche le società cui si rivolgono i risparmiatori e i piccoli trader, per la loro maggiore liquidità e, relativa, solidità. Qui si inserisce l’altra evidente anomalia: l’esclusione delle operazioni intraday, cioè di quelle che vengono aperte e chiuse in giornata. Per operare in questo modo occorre essere dei professionisti, capaci di cogliere movimenti anche minimi nell’andamento dei prezzi, e per essere profittevoli devono essere numerosissime durante la giornata.
Questa strana esclusione è probabilmente dovuta alla necessità di non avere reazioni troppo forti da parte degli operatori professionali e, forse, al tentativo di non danneggiare troppo la nostra piazza finanziaria. Così, però, il provvedimento finirà per danneggiare solo i piccoli trader, già sofferenti per l’andamento dei mercati, che si troveranno di fronte a un pesante aggravio dei costi per operazione, tale da far rinunciare molti di loro.
Se la ratio del provvedimento era quella di spostare i piccoli investitori dalla Borsa ai titoli di Stato, credo ben altre sarebbero le iniziative da prendere, in primis ricostruire la fiducia nello Stato. Cosa difficile con norme che, più che il commissario Bellachioma del succitato film, ricordano Tafazzi.