Da sempre la lotta all’evasione fiscale è stata una parte importante della copertura mediatica dei nostri governi, e dei loro bilanci, sia pur con entrate solo ipotizzate. Ultimamente, tuttavia, è diventata quello che in pubblicità si definisce “tormentone”, alimentato da campagne pubblicitarie, blitz vari e comparsate televisive.

Uno straniero che assistesse alla carrellata di vestali sdegnate dalla evasione, personaggi della politica e dello spettacolo, esperti di ogni tipo, giornalisti, presidenti di più o meno oscure associazioni di consumatori, arriverebbe alla conclusione che il nostro è un Paese di virtuosi contribuenti.

Molti italiani si saranno invece chiesti se davvero costoro hanno sempre preteso la fattura dall’idraulico o dal falegname, tanto per dire, resistendo alla tentazione di evitare il pagamento dell’Iva. Molti di loro lo avranno probabilmente fatto, per poter scaricare i costi sulle loro, o altrui, aziende, a sostegno di chi afferma che la miglior misura contro l’evasione è creare conflitti di interesse.

La campagna pubblicitaria, ben fatta tecnicamente, è centrata sull’equazione evasore = parassita.  Se l’obiettivo della strategia di comunicazione è convincere gli evasori a pagare le imposte, qualche dubbio sulla sua efficacia è lecito. Sparare nel gruppo di norma non porta a buoni risultati in comunicazione e gli evasori non sono tutti uguali: si veda per esempio la classificazione fatta da Sergio Luciano in un suo articolo su Ilsussidiario.

Quelle fasce marginali di popolazione, non trascurabili in molte zone del Paese, che evadono per non andare sotto il livello di sussistenza, credo siano rimaste solo irritate, ma non spinte a emergere dall’evasione.. Né credo che gli evasori “professionali”, o la criminalità organizzata, siano corsi in massa dal Dottor Befera con in mano il maltolto.
Se però lo scopo fosse sostenere l’immagine istituzionale dell’Agenzia delle Entrate, allora la strategia sarebbe centrata, articolata come è su campagna pubblicitaria, azioni di relazioni pubbliche, come i blitz nelle varie località alla moda, e sponsorizzazioni televisive.

Con un obiettivo collaterale, anch’esso ben tratteggiato, di stimolare l’invidia sociale come strumento antievasione. Non a caso, in televisione si è cominciato a utilizzare, ancora con qualche ritrosia, la parola delazione, fatta propria senza alcuna remora sul web, tanto da suscitare commenti preoccupati sul ritorno al “capo caseggiato” di mussoliniana, e staliniana, memoria.

Eppure, sarebbe stato possibile un approccio in positivo, illustrando le ragioni per cui è giusto e conveniente pagare le imposte. Probabilmente il successo non sarebbe stato migliore presso gli evasori descritti prima, ma gli onesti sarebbero stati confermati nella bontà del loro operato e si sarebbe presentato uno Stato che, una volta tanto, non giocava a guardie e ladri. Il punto è che una simile campagna, per essere credibile, presuppone alcuni fatti: un sistema fiscale equo e “amico” del contribuente, cioè del cittadino di cui è al servizio, un’amministrazione e servizi pubblici efficienti, una gestione delle entrate trasparente e ben rendicontata.

Evidentemente non se la sono sentita e lo Stato ha preferito continuare a mostrare i muscoli. Come per il canone Rai, anche a parte la campagna pubblicitaria criticata per l’uso strumentale di Giovanni Paolo II. Una visita al sito Rai  dedicato al canone chiarisce una volta per tutte che, abbonamento o canone, si tratta di un’imposta il cui mancato pagamento configura evasione.

Un’imposta di tipo patrimoniale sul televisore, di cui basta il possesso indipendentemente dal fatto che lo si usi o meno . Ed è irrilevante che si rinunci a ricevere i programmi Rai: la disdetta è possibile solo se si cede o si rende inutilizzabile il televisore. Gli introiti pubblicitari, si afferma, non sono sufficienti a finanziare il servizio pubblico della Rai ed è quindi necessaria questa imposta per “non ridurre la sua capacità di offerta e di adeguamento tecnico e culturale.”

Il sito mostra una classifica dove, nel 2011, l’Italia era all’undicesimo posto su 14 Paesi europei per entità del canone. Dalla stessa tabella, però, si ricava che dove il canone è più elevato, gli introiti pubblicitari non esistono o sono più bassi percentualmente di quelli della Rai, tranne  in Irlanda. Prendendo due Stati con popolazione circa pari alla nostra, contro una percentuale del 28% della Rai, France TV ricava dalla pubblicità il 12% delle sue entrate, mentre la BBC non ha introiti pubblicitari. C’è qualcuno che pensa che la blasonata BBC non faccia servizio pubblico?  E c’è qualcuno che riesce a scorgere una sostanziale diversità tra i programmi della Rai e gli altri? Forse  per questo il canone Rai viene definita la tassa più odiata, e forse più evasa, dagli italiani..

Volendo dare un giudizio sintetico della comunicazione pubblica in tema di imposte, è difficile quindi sottrarsi all’impressione che, al di là dei contenitori più moderni, il contenuto sia rimasto quello delle vecchie circolari dispositive: paga e taci. Solo che campagne media, blitz scenografici e TV di Stato sono molto più costosi.