Si sta avvicinando la stagione delle dichiarazioni dei redditi, per chi le fa, e vorrei riprendere il discorso sull’evasione fiscale, già iniziato con la critica su come lo Stato comunica in materia. Critica diretta non a giustificare l’evasione, ma a combattere quella comoda equazione che identifica il pagamento delle imposte con una sorta di imperativo categorico morale, posto a carico esclusivo del contribuente.

Se non si affronta questo nodo concettuale, è inutile lamentarsi di un carico fiscale tra i più alti in Europa  che si confronta con una qualità dei servizi pubblici non eccelsa, o addirittura scadente. A differenza di un sovrano assoluto che impone tributi ai sudditi senza dover rendere alcun conto, uno Stato democratico ha il dovere di dar conto di come spende il denaro conferito dai suoi cittadini, sotto forma di imposte e tasse, al fine di ottenere quei servizi che i cittadini non sono in grado di produrre da soli o attraverso le loro forme associative.

L’imposizione fiscale è uno strumento di politica economica e non riducibile solo a un grimaldello per aumentare le entrate e far quadrare un bilancio che lo Stato non è neppure in grado di spiegare, non dico di razionalizzare e ottimizzare. Gli altri europei, quelli portati ad esempio dai nostri benpensanti, non sono felici di pagare le tasse, infatti se possono le evadono, ma hanno molto meno difficoltà a pagarle a fronte di uno Stato che adempie, almeno per una buona parte, ai doveri per cui esiste.

In questa ottica va posto anche il problema dell’evasione fiscale, uscendo dall’ostentazione moralistica di onestà cui stiamo assistendo da un po’ di tempo, cui viene sempre più spesso da contrapporre “chi è senza peccato…”. Per cominciare, si dovrebbe evitare di parlare di evasione in generale, ma vederne le varie componenti, e torna utile a questo proposito un articolo di Sergio Luciano su Ilsussidiario.net di qualche mese fa, in cui venivano identificate quattro possibili tipologie di evasione.

Una prima tipologia veniva definita da Luciano “sussistenziale”: “diffusissima soprattutto nelle aree svantaggiate, che consiste nella ‘vita in nero’ dei piccoli e piccolissimi artigiani, agricoltori, commercianti di prossimità che risultano nelle statistiche come disoccupati e in realtà campicchiano senza partita Iva né libretto di lavoro, ma grazie a quella cosiddetta “economia del pomodoro” che non può essere sanata imponendo loro un’emersione che non avrebbero la forza economica di sostenere.

Con l’attuale gravissima crisi, questo tipo di evasione si è ampliata, estendendosi ad altre aree e categorie. Accanto agli “esodati” di cui tanto si parla, giustamente, vi sono anche tutti quelli che non vi sono inclusi, ma che si trovano ugualmente a cinquanta e più anni senza lavoro, costretti a lavorare in nero, se gli va bene. Non penso sia giusto definirli “parassiti”, con buona pace dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate al riparo dei loro intangibili contratti di lavoro.

Mi sembra chiaro che qui la semplice caccia all’evasore porta solo ad aggravare la situazione e servano invece ben altre politiche economiche e sociali, difficili da immaginare per uno Stato che, a 150 anni dalla tanto glorificata unificazione, non è ancora riuscito a risolvere gli endemici problemi di tante regioni “unificate”.

Il secondo tipo di evasione è quello definito “elusione”, cioè “l’adottare tutta una serie di comportamenti fiscalmente furbi che si posizionano al confine tra la lecita ottimizzazione fiscale e la furbata para-evasiva”. Qui la lotta all’evasione presenta connotati francamente preoccupanti, se si ipotizza che sia l’autorità preposta a decidere, di fronte a scelte di per sé lecite, che esse sono perseguibili come evasione se lo scopo è quello di pagare meno imposte. Se ciò avvenisse, saremmo nell’area dei puri e semplici processi alle intenzioni.

Occorre invece tornare a un comportamento da Stato di diritto, dove leggi e regolamenti non siano un coacervo di disposizioni difficili da interpretare, spesso in contraddizione tra loro e in permanente divenire.  Tanto che la stessa Agenzia delle Entrate è non di rado costretta a rispondere di essere anch’essa in attesa di chiarimenti sull’applicazione delle norme. Non c’è peraltro da stupirsi di fronte a uno Stato che non sa neppure con precisione quante siano le leggi vigenti, stimate comunque a più di 100mila, senza contare quelle locali. Un confronto impietoso con gli altri Paesi europei, che ha portato il precedente governo a istituire un ministero preposto alla eliminazione delle leggi inutili! Eppure, il nostro è il Parlamento più numeroso di Europa, con una delle strutture più costose.

Luciano identifica poi una categoria speciale, ma estremamente pericolosa, di evasori: “i criminali, cioè di tutti quelli che hanno lavori di copertura, fiscalmente anche in regola, e in realtà esercitano attività delinquenziali, dallo spaccio alla prostituzione, ai furti, alle bische, che sono in nero per definizione”. Giustamente Luciano indica nelle forze dell’ordine e nella magistratura gli strumenti per combattere questa categoria di evasori. L’Agenzia delle Entrate  arriverà al seguito, come la sussistenza nell’esercito.

Si arriva così agli evasori veri e propri, quelli che non denunciano i propri redditi, non emettono fatture, ma scontano tutte quelle passive, magari falsificandole, e così via. Sarebbe interessante valutare quanto vale questo tipo di evasione, che rientra a pieno titolo nelle competenze dell’Agenzia delle Entrate. E quali sono gli strumenti che vengono utilizzati, che occorrerebbe analizzare bene, visto il continuo incremento di vincoli e obblighi addossati a chi le imposte le paga, magari perché non può farne a meno, e l’uso improprio di indicatori quali gli studi di settore e il redditometro, o la mediatizzazione dei cosiddetti blitz.

A questo proposito, ancora una nota sui modelli di comunicazione in materia. In occasione di uno degli ultimi blitz, i giornali titolavano “Il 50% degli scontrini non in regola”: cosa significa, che tutti gli esercenti controllati avevano emesso solo il 50% di scontrini regolari, o che la metà degli esercenti li aveva emessi tutti regolari, mentre l’altra metà non ne aveva emesso nessuno? Non parrebbe irrilevante sapere la percentuale di esercenti in regola, accanto a quella degli scontrini irregolari.

C’è un altro aspetto, poi, da rilevare: il 50% dei clienti ha accettato di avere scontrini irregolari o di non averne del tutto. Poiché non credo che ciò sia avvenuto sotto minaccia a mano armata dell’esercente, Dottor Befera, non le viene qualche dubbio sull’efficacia della sua campagna “parassiti”?