Per la maggior parte degli osservatori, la questione greca sembrerebbe ormai risolta e rimane solo da stabilire se se ne andrà la Grecia o sarà la Germania, scusate!, l’UE a metterla alla porta. Non vi sarà probabilmente alcuna decisione politica prima delle prossime elezioni greche del 17 giugno, per “rispettare” la volontà dei greci, ma appare evidente a tutti che queste elezioni non potranno risolvere quasi niente.
Una fine prevista e preparata da lungo tempo, anche nelle sue conseguenze. Ma è proprio così? La maggior parte dei commenti si concentra sullo stato della economia europea prima e dopo il distacco, con scarsa attenzione alla situazione interna della Grecia. Che per molti versi, pur nella ovvia grande diversità, ricorda quella dell’Italia dopo le sanzioni della Società delle Nazioni nel 1935, a seguito della guerra d’Etiopia, chiamate da Mussolini “inique sanzioni”.
Si trattò di un embargo non durissimo, meno duro forse di quello imposto ora alla Grecia, che servì però a Mussolini a stimolare l’orgoglio degli italiani e diede inizio alla fase dell’autarchia. Un’epoca caratterizzata da nomi che suonano ormai strani: carcadè, lignite, lanital, i surrogati nazionali di quelli di importazione. Le sanzioni contro l’Italia durarono solo un paio di anni, ma quanto durerebbe la quarantena della Grecia? Un Paese che sarà pure periferico, ma che riveste importanza strategica per il resto d’Europa, Paese di frontiera verso i nuovi blocchi che si stanno formando, in primis quello intorno alla Turchia.
Ci sono quindi sufficienti motivi per credere che le affermazioni tedesche di voler mantenere la Grecia nell’Eurozona possano essere vere e che la strategia di Berlino miri ad altri scenari. In questo senso, può essere utile riandare all’intervista, pubblicata su IlSussidiario.net lo scorso dicembre, a Joachim Starbatty, Professore emerito di economia politica all’Università di Tubinga.
Il professor Starbatty partiva dalla constatazione di una oggettiva divisione nell’Eurozona tra i sei Paesi “forti”, Germania, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Olanda e Austria, e gli altri Paesi. Anche se nel frattempo Francia e Austria hanno perso la triplice A e in Olanda il governo è caduto proprio in funzione antieuropea, il quadro di fondo disegnato dal professore sembra ancora utile per capire le strategie tedesche, che vanno ben oltre i problemi e il carattere di Frau Merkel.
Vediamo alcuni passaggi dell’intervista: “Nessuna delle ipotesi citate può fornire ai Paesi in difficoltà un modello di business durevole. Questi Paesi possono recuperare la capacità di competere sul piano internazionale solo uscendo dall’Unione monetaria e svalutando le proprie monete nazionali.”
E ancora: “Sui mercati si discute spesso di un possibile crollo dell’euro. La cosa più probabile sarebbe un raggruppamento dei sei Stati a “tripla A”. Se fosse la Germania ad abbandonare l’Eurozona, il risultato sarebbe lo stesso, perché gli altri Stati a “tripla A” la seguirebbero. Per ragioni politiche, tuttavia, sembra escluso che sia la Germania a prendere l’iniziativa. ….se invece fosse la Grecia a tornare alla dracma, altri Paesi si ritirerebbero probabilmente dall’euro. Ma anche questo finirebbe per dar luogo a un’Eurozona dei sei stati a ‘tripla A.’ “
Pur sottolineando i notevoli costi di questa eventuale divisione dell’Eurozona, Starbatty la considerava un’ipotesi in discussione, e credo che tale rimanga. D’altro canto, un’Europa “a due velocità” è fin dall’inizio una proposta tedesca. I danni maggiori per la Germania sarebbero sul lato esportazioni, ad esempio per un ricupero di competitività dell’Italia in un euro svalutato di serie B, o con il ritorno alla lira.
Tuttavia, questa non è l’unica possibilità prevista dalla strategia tedesca. Infatti, la Germania è ben disposta a rimanere nell’Eurozona, purché gli altri Paesi si adeguino alle sue ferree condizioni. I vantaggi di questa variante strategica sono stati spesso illustrati sul ilSussidiario.net, per esempio nell’intervista a Marco Fortis. È quindi improbabile che eventuali cambi di governo a Berlino portino a modifiche sostanziali di una strategia ritenuta comunque vincente.
In sintesi, la Germania pone al resto dell’Eurozona la scelta tra una specie di Reich, sarebbe il quarto della serie, e una riedizione del Sacro Romano Impero a guida germanica. Non a caso, la Gran Bretagna rimane cocciutamente fuori dall’Eurozona, mentre il problema continuerà a rimanere per la Francia.
Diversi commentatori su queste pagine hanno segnalato un altro aspetto rilevante, cioè l’afflusso verso la Germania di capitali dai Paesi in difficoltà, o ritenuti tali. É un altro punto di scontro con il Regno Unito, da cui l’accusa a Cameron di voler egoisticamente difendere il mercato finanziario di Londra. Critiche che sembrano ignorare la lotta per la supremazia sui mercati finanziari europei in corso da anni tra Londra e Francoforte, per il momento apparentemente vinta dalla City che, pur azzoppata, può contare su dimensioni internazionali ancora difficili da raggiungere per i tedeschi.
Qui si apre per l’Italia un altro fronte di conflitto con la Germania. Infatti, nel 2007 la Borsa Italiana è entrata a far parte del London Stock Exchange, cosa che forse non è piaciuta ai tedeschi, la cui Deutsche Börse aveva a sua volta cercato di acquisire LSE, senza riuscirci.
Ha ragione quindi chi sottolinea, come ultimamente Robi Ronza e ancora Fortis, l’opportunità che il nostro governo esca dall’attuale sudditanza verso Germania e Francia. Magari, quando è il caso, facendo sponda con il Regno Unito, approfittando del fatto che Monti è senza dubbio il più anglosassone dei nostri primi ministri.
Qualcuno potrebbe obiettare che gli inglesi non perdono occasione per parlare male di noi, il che è vero. Sarebbe però opportuno che i nostri commentatori e “opinionisti” imparassero anche il tedesco, si accorgerebbero così di cosa scrivono di noi gli equivalenti tedeschi dei, peraltro da loro molto apprezzati, Financial Times o The Economist.