E’ ormai chiaro come rischi di essere riduttivo considerare gli scontri in Siria una insurrezione popolare per liberarsi di una dittatura sanguinaria, dato che stanno assumendo sempre più la natura di una vera e propria guerra civile. Paradossalmente il problema è stabilire precisamente quali sono le parti in lotta. Da un lato, il fronte dei “ribelli” è estremamente differenziato e composto non solo da combattenti per la libertà, ma anche da fazioni estremiste e infiltrato da delinquenza comune. Dall’altro, anche il regime degli Assad sembrerebbe meno unito di quanto possa apparire ed è comunque composito il fronte dei suoi sostenitori.
Sono comprensibili le resistenze ad ammettere apertamente una guerra civile, per di più a sfondo religioso, ma di fatto lo scontro principale è tra la minoranza sciita, nella discussa versione alauita, al potere con il clan degli Assad, e la maggioranza sunnita. Scontro che ha più vasti riflessi nella regione. Non a caso, la prima è sostenuta dall’Iran sciita, mentre la seconda dall’Arabia Saudita, in cui domina una variante estremista dell’islam sunnita, quello wahabita. Il ruolo della sunnita Turchia sembra più articolato e rientrare in quel riposizionamento delle alleanze (vedasi il cambiamento radicale nei confronti di Israele) voluto da Erdogan nel tentativo di imporre una leadership turca nel vicino mondo arabo, in contrasto con l’Arabia Saudita e il persiano Iran.
L’appoggio russo ad Assad è determinato dagli interessi che la Russia ha nella regione, ma è anche una continuazione storica dell’appoggio che l’Unione Sovietica forniva in funzione anti-occidentale ai partiti Baath, espressione di una sorta di socialismo arabo, al potere in Siria come in Iraq.
In questa complessa situazione, diverse minoranze siriane pensano che la caduta di Assad farebbe mancare la protezione data loro, nonostante tutto, dalla dittatura: non si tratta solo dei cristiani, ma anche dei drusi o dei curdi. Questo, d’altro canto, è stato l’esito in Iraq dopo la caduta di Saddam.
In questo senso vanno lette le dichiarazioni ufficiali della Chiesa cattolica in Siria, riprese dal Patriarca della Chiesa melchita cattolica, Gregorio III Laham, in un documento ufficiale dello scorso 16 luglio, teso a chiarire le posizioni della gerarchia cattolica siriana di fronte ai tragici avvenimenti in corso nel Paese.
Un primo punto del documento è la denuncia della violenza e dell’anarchia in cui rischia di sprofondare la Siria, situazione in cui tutti i cittadini vengono colpiti, senza distinzioni, anche se i cristiani rimangono l’anello più debole. I cristiani sono infatti i più esposti alla violenza, ma anche i più decisi a impiegare mezzi pacifici per ottenere le riforme necessarie, la libertà e la democrazia, per combattere la corruzione e aiutare lo sviluppo; tutti obiettivi più volte chiaramente richiamati nelle dichiarazioni della Chiesa.
Il documento denuncia anche le ingerenze esterne, sia arabe che occidentali, che con la fornitura di armi, di finanziamenti e un uso scorretto dell’informazione nuocciono alla unità nazionale e al raggiungimento degli obiettivi delineati. Fomentando un conflitto tra musulmani e cristiani non esistente, almeno in origine.
Gregorio III respinge decisamente le accuse di fiancheggiamento del regime e invita a cooperare a una soluzione pacifica della attuale tragica situazione e cita, come una possibilità concreta già in atto, il movimento Mussalaha (riconciliazione). La lunga storia di convivenza tra diverse religioni ed etnie che caratterizza la Siria lascia, infatti, ancora una grande speranza di riconciliazione nazionale. Che può essere invece impedita dalle interferenze esterne.
Particolarmente rilevante è la descrizione che il Patriarca fa della posizione dei cristiani in Siria: “La nostra posizione come cristiani deriva dal fatto che siamo cittadini d’una società laica, così come della nostra identità cristiana. Quelle che vengono definite prerogative di cui si crede godano i cristiani in Siria non sono altro che i diritti universali di tutti i cittadini siriani, qualunque sia la confessione cui appartengono.” E ciò è una conseguenza della storia della Siria, dal sistema dei “millet” con cui l’Impero Ottomano aveva affrontato il problema delle relazioni interconfessionali, passando per il protettorato francese fino ai governi recenti.
Quindi, continua il documento, “affermare che lo statuto dei cristiani è frutto della loro adesione al regime e finirà con la sua caduta è assolutamente falso!”. Chi all’estero si preoccupa dei cristiani dovrebbe tenerne conto e, invita Gregorio, “non far di noi, nelle vostre analisi, degli intrusi nel nostro mondo arabo islamo-cristiano, né degli agenti al suo interno, dei ‘dhimmi’, dei protetti vostri o di qualcun altro.”
Sarebbe bene che l’Occidente tenesse in debito conto quanto detto dal Patriarca, a partire dalla denuncia delle ingerenze esterne, in gran parte al servizio dei propri interessi e non dell’avvento di una società più libera e giusta in Siria. E si rendesse conto che potenze come Arabia Saudita, Qatar, Turchia, considerate amiche, e dall’altra parte l’Iran nemico, sono accomunate dal considerare i cristiani corpi estranei nel mondo musulmano, da espellere con le buone o con le cattive. Come ancora una volta l’Iraq dimostra.
Le medesime preoccupazioni emergono in un documento firmato da una trentina di accademici, . professionisti e attivisti assiri (membri della Chiesa caldea-siriaca) residenti in Europa e negli Stati Uniti, intitolato “Per un governo pluralistico, laico e democratico in Siria”.
Il documento, dopo aver dichiarato non possibile sostenere l’attuale dittatura, denuncia come la iniziale opposizione pacifica e democratica alla dittatura baathista in Siria, sia gradualmente diventata una opposizione armata sostenuta dall’esterno, con forti tendenze islamiche. Anche qui gli accusati sono Arabia Saudita, Qatar e Turchia.
Memori dei massacri che hanno segnato la loro storia, l’ultimo nel 1915, al grido di “Allahu Akbar” (Allah è grande), gli assiri ci ricordano che lo stesso grido è risuonato durante le manifestazioni nelle città siriane. Certo, un riflesso della loro storia e quel grido di per sé non significa nuovi massacri di cristiani, ma è una prova della estrema complessità della situazione e della difficoltà per noi occidentali di comprenderla e di agire con la necessaria prudenza, essendo più facile applicare acriticamente i nostri schemi.
Anche gli assiri concludono il loro documento con l’invito all’unità nazionale, al di là di tutte le divisioni esistenti, esplicitando il loro appoggio al piano di pace di Annan. Ma non sembra che ciò stia particolarmente a cuore alle varie potenze, incuranti del rischio che l’incendio si espanda a tutto il Medio Oriente. O forse proprio per questo?